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Attualità domenica 01 aprile 2018 ore 07:00

Amarcord piombinese - Fabio, Sabatino, Ferruccio…

Sabatino e Ferruccio (Foto di Domenico Finno)

Amarcord piombinese e la Piombino com'era firmato da Gordiano Lupi per il blog #tuttoPIOMBINO



PIOMBINO — Franco Micheletti ha scritto un libro che resterà negli annali piombinesi, ricco di personaggi che compongono la storia con la esse minuscola, in fondo la vera storia di una comunità, alcuni figli d’un Dio minore, altri sciroccati di provincia, altri ancora piccoli furfanti, dandy, cantanti, attori, pugili, più semplicemente tipi strani. Un Amarcord felliniano, pare il Piombino com’era di Micheletti, che ci racconta come e quanto sia cambiato il nostro angolo di provincia, sempre più spersonalizzato, sempre più uniformato ai gusti nazionali, sempre meno dotato d’una specificità culturale. 

Piombino è meno globalizzato di altri luoghi, per fortuna, ancora riesce a salvare qualcosa di soltanto suo, vuoi per la posizione geografica - quasi da isola - che lo tiene distante dai grandi centri, dai luoghi vitali e produttivi. Nonostante tutto il tempo passa e le cose cambiano, i gelati non hanno il sapore d’un tempo, a volte sanno di rimpianto, le bocche di leone sono fredde madeleines del passato, ricordano in un sol boccone quel che siamo stati, ma i profumi non restano, lo zucchero non è lo stesso, la meringa neppure.

Tre persone guardavo sempre un po’ allibito: Fabio, Ferruccio e Sabatino. Personaggi, a modo loro, ché me li vedevo scorrere davanti come protagonisti del mio film neorealista, della mia commedia felliniana di cui ero semplice comparsa, al massimo un caratterista alla Alvaro Vitali. Loro no. Erano nei titoli di testa.

Fabio percorreva ogni giorno la città a tutta velocità, in sella a un motorino scassato, faceva il radio amatore, perso nei suoi pensieri, se gli rivolgevi la parola farfugliava sempre le solite cose, di solito borbottii incomprensibili, in compenso lanciava messaggi nell’etere. Non era cattivo, Fabio. Viveva nella sua realtà, in un mondo previrtuale ma radiofonico, rischiando di travolgere chissà quante donnine che caracollavano sotto il peso di borse ricolme di spesa, per la velocità folle con cui sfrecciava sul cadente motorino d’epoca. Piccolo, tarchiato, baffetti alla Hitler, modi bruschi ed essenziali. Tutti lo conoscevamo e - da perfetti bastardelli di provincia - ci prendevamo pure gioco di lui, che ogni tanto s’incazzava di brutto e minacciava a qualcuno di fargliela pagare. Ma poi non accadeva niente. Tornava a trasmettere dati con la sua radio, si credeva l’uomo più importante del mondo, intento a risolvere chissà quale intrigo internazionale, conversando in una chat antidiluviana con qualche camionista che percorreva la vicina Aurelia o con sperduti pescatori a bordo di modeste paranze.

Sabatino era una specie di nano dalla testa grossa, pure lui un bonaccione, ma da piccolo mi faceva una paura incredibile, per via di quel suo aspetto truce, un po’ trasandato. Parlava a scatti, tartagliava, biascicava sempre le solite cose, discorsi che non erano discorsi, imprecazioni trattenute, mozziconi di frasi. Era un personaggio della corso Italia d’un tempo, che vagava da piazza Dante a via Torino con quei pantaloni alti in vita, un po’ alla Fantozzi, soffiandosi il naso rumorosamente, parlando al vento di sogni impossibili e illusioni trattenute in un fisico assurdo. Impossibile non incontrarlo per le strade della Piombino vecchia.

Ferruccio è il mio ricordo più distinto, capelli rossi e parlottare a scatti, come una raffica di mitraglia, non molto amico di Sabatino, anzi proprio per niente. Ferruccio a suo modo era un tipo colto, ché passava le giornate al cinema, di solito al Sempione, ma lo potevi vedere anche al Metropolitan, dare una mano al mercante di lupini per poi accomodarsi in sala, soprattutto quando programmavano pellicole erotiche, spettacoli di cinema e rivista. Ferruccio è rimasto nella piccola storia cittadina perché quando lo incontravi non potevi fare a meno di chiedere: “Ferruccio, quanti film danno oggi al Sempione?”. E lui, pronto, ti rispondeva come una raffica di mitraglia: “Due! Due! Due! Due!”. E già perché il vecchio cinema Sempione, palcoscenico della nostra fanciullezza, sul finire degli anni Sessanta ma anche nei primi Settanta, regalava sempre due pellicole al prezzo di una. Altri tempi. Entravi poco dopo pranzo, uscivi a ora di cena, dopo aver mangiato semi e cinema per tutto il pomeriggio, tra un’indigestione di duri alla menta conditi da Ercole e la regina di Lidia e un Fra’ Diavolo con Stanlio e Ollio che si perdeva in un groviglio di stringhe alla liquirizia. Vecchio e indimenticabile Cinema Sempione che ci andavo con mia nonna, innamorata del cinema dai tempi del neorealismo rosa. Pane amore e Sempione, parafrasando il titolo d’un vecchio film.

Personaggi ce ne sono stati tanti, alcuni hanno attraversato lo spazio d’una stagione, altri si sono fermati nel tempo ed è giusto conservarne la memoria storica. E allora tra questi voglio citare anche Antonio Bindani, detto il Bersagliere, perché non si fermava mai, aveva quasi ottant’anni e camminava senza sosta per le strade d’una Piombino che conosceva a menadito. Era mio nonno. Non c’era luogo che non avesse frequentato e che non conoscesse, è stato lui a farmi scoprire questa città, presentandomela dall’alto dei Tre Pini, verso Villa Marina, che non c’era ancora. Ecco perché quando ascolto le note malinconiche de Il vecchio e il bambino di Francesco Guccini mi viene a mente lui che mi tiene per mano, anche se le sue favole non erano tristi e le sapeva raccontare bene. Parlava di Seggiano, della montagna abbandonata per andare in America a far fortuna, della Grande Guerra combattuta, d’una lunga prigionia, della fuga dall’Austria e del ritorno in patria quando tutti lo credevano morto. Era Cavaliere di Vittorio Veneto, uno dei pochi superstiti, teneva quel diploma e quella medaglia come un dono d’amore, anche se non volevano dire denaro e gloria, ma solo sofferenza. Pure mio nonno è stato un personaggio d’un tempo passato, come tanti nonni e nonne delle nostre famiglie, impegnato a combattere i tedeschi, a fare l’interprete in fabbrica per gli americani, perché sapeva un po’ d’inglese. E dopo la Seconda Guerra Mondiale una vita normale, una moglie, una figlia, una storia da raccontare ai nipoti, perché in fondo è vero che il più grande atto di eroismo è vivere.

Amarcord lieve e soffuso di nostalgia, perché niente vada perduto, perché il passato resti insieme a noi, a futura memoria. Come ho già scritto da qualche parte, se vivere di ricordi fa morire in fretta, vivere con i ricordi è bellissimo, ti riempie il cuore d’una struggente felicità. 

Gordiano Lupi
© Riproduzione riservata


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