Una volta, durante la presentazione d’un libro, mi viene fatto di dire che a Piombino non abbiamo un dolce tipico, una cosa che ci rappresenti, aggiungo che dovremmo inventarcelo per proporlo ai turisti, un po’ come fanno gli elbani che hanno tirato fuori dal cilindro grappe, profumi e una sorta di mirto come se fossero la Sardegna. Ma ecco che subito esce fuori un tale che di tradizioni locali se ne intende a dire che un dolce tipico nostrano esiste, a parte la schiaccia briaca che è elbana e la schiaccia campigliese che è (appunto) campigliese, noi piombinesi - da tempo immemore - abbiamo il corollo. Pure qui ci sarebbe da dibattere a lungo, perché gli elbani dicono che il corollo è roba loro, anche se è complicato dirimere con un taglio netto l’annosa vertenza. Pure io son mezzo sangue, generato da un elbano e da una piombinese con ascendenze amiatine, così come tutti sanno che molti elbani si sono stabiliti a Piombino negli anni Cinquanta, ai tempi del detto pane e fumo. Se stiamo a vedere fino in fondo il corollo è una ricetta Toscana, in definitiva Maremmana, risale ai tempi che si cantava il maggio e si faceva la serenata alla ragazza che si voleva sposare. I ragazzi innamorati cantavano di sera, mentre le ragazze da marito (oggetto della serenata) cuocevano il corollo, da regalare agli amanti il giorno successivo, tagliato a fette, disposte su bastoni infiocchettati. Il corollo ancora oggi è un ciambellone, un dolce con il buco, simbolo di amicizia e di cordialità, dovrebbe ricordare un giorno di festa, una ricorrenza. Rammento che in casa di mia nonna - portoferraiese di via Mentana, zona del Carburo, tra il cementificio e il campo di calcio dell’Audace - non mancava mai prima di Natale ed era il dolce della domenica. Il corollo si fa con prodotti comuni, uova e farina, zucchero e burro, un po’ d’anice, latte, scorza di limone e lievito, qualcuno aggiunge yogurt per farlo più delicato, chi ama i dolci al cioccolato inserisce la variante del cacao, ma sempre corollo resta, per la tipica forma rotonda e l’immancabile buco nel mezzo. Caro il mio corollo che profumi d’infanzia, vera e propria madeleine come la bocca di leone, la mia prima colazione da bambino, inzuppato nel latte caldo, quando per la parola colazione non serviva l’aggettivo prima, ché la colazione si faceva di mattina mentre il pasto di mezzogiorno (delle dodici, diceva mio padre) si chiamava pranzo. Caro il mio corollo che sei il ricordo dei viaggi a Pisa verso l’Università, mia madre che ti prepara nel fine settimana, prima di partire non puoi proprio mancare, il posto in valigia va trovato, per far colazione a casa e risparmiare. Caro il mio corollo, sei la memoria d’una tradizione consueta che provocare disgusto e repulsione, povero dolce del passato che quando cerco il tuo profumo non lo trovo. Adesso che il tempo ha seppellito le abitudini, mi piacerebbe ritrovarti ancora, mordere la tua pasta zuccherosa, per lasciarmi pervadere da un’indicibile tempesta di ricordi.