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La mia città

Su #tuttoPIOMBINO di QUInews Valdicornia “La mia città” di Gordiano Lupi. Foto di Riccardo Marchionni

La mia città chiamarla città è un po’ eccessivo, se si vuole. Cittadina sa di scuola elementare, paese è un po’ riduttivo. La mia città è uno di quei posti che le giornate hanno tutte lo stesso sapore e il tempo pare non passi mai. La mia città. Vivere in provincia però mica mi dispiace. Sono io che l’ho scelto. Dopo laureato me ne sarei dovuto andare al nord. No grazie, dissi. Io al nord cosa ci facevo. Non c’è il mare, al nord, o almeno nonc’era là dove sarei dovuto andare. Trasferirmi a Milano. Avevo amici che vivevano a Milano e non li invidiavo per niente. Non mi sarei adattato mai a vivere a Milano, in quel via vai di auto e persone che corrono e pare abbiano soltanto loro qualcosa di importante da fare.

La mia città si percorre in lungo e in largo che basta un pomeriggio e l’auto non serve mica. Nessuno ne fa a meno, però. Ma questo è un altro discorso. La vita scorre per una via del centro che porta al mare, saranno cento metri. Noi la chiamiamo corso.

“Ci vediamo in corso”, si diceva da ragazzi. Al corso si faceva lo struscio tutte le sere, avanti e indietro, senza stancarsi. Lo fanno anche adesso. I tempi cambiano ma il corso resta. Non chiedetemi perché. Fare le vasche in corso. Ricordo da liceale un po’ vagabondo. Memoria di universitario sfaccendato nel fine settimana. Incontrare amici, fare quattro chiacchiere, tampinare ragazze. Che poi d’estate il corso finiva e cominciava la spiaggia. C’era un bar con terrazza sul golfo, musica e flipper. Non ci mancava niente. Però d’inverno, prima di cena, era d’obbligo il corso. Non c’era latino da tradurre che tenesse. Tanto il compagno secchione la faceva di sicuro la versione e noi giù a copiare, ché quello ci veniva bene più che tradurre.

Adesso che il lavoro mi ruba la vita le vasche in centro sono soltanto un ricordo. Se esco ho sempre una meta razionale. Purtroppo. Faccio shopping, che solo a pensarlo questo termine inglese mi fa incazzare di brutto. Parlo con la gente del niente che c’è intorno e penso che era meglio se non uscivo. Penso. Non saprei più che fare avanti e indietro per quella strada senza una meta. Non troverei le cose perdute, i sorrisi delle ragazzine, le cioccolate calde nelle sere d’inverno, i manifesti di Godzilla e King Kong davanti al cinema di terza visione. Eppure non è cambiata mica tanto la mia città, in fin dei conti si vive come un tempo. C’è sempre il corso, ci sono i due cinema del centro, gli stessi bar. Hanno chiuso la sala giochi accanto alla gelateria e il cinema di terza visione, quello di Godzilla. Un po’ mi spiace. È tanto che non mangio più gelati. Immagino pellicole di Tarzan e Maciste, rimpiango stracciatella calda e profumo di latte. Sono sicuro che il gelato non ha più il sapore d’una volta. Sa di amaro. Sa di rimpianto. E poi lo so cosa c’è che non va in questo corso, in questa vita che scorre, nelle cose che non sono le cose e io che non ci capisco più niente. Lo so bene, purtroppo. E non mi va mica tanto di ammetterlo.