Sergio Raspollini, detto Arce, fa parte della mitologia dei personaggi piombinesi legati al calcio popolare più schietto e al quartiere di Marina, un tempo detto Trastevere. Credo che i giovani non sappiano neppure il motivo di questa denominazione, quindi è utile riassumere in poche parole.
Trastevere è il cuore di Roma, così come Marina è il cuore di Piombino, il quartiere piombinese per eccellenza. Inoltre alcuni scorci della zona vecchia di Piombino richiamano lo storico quartiere romano e contribuiscono a rendere tangibile la similitudine. Sergio veniva soprannominato Arce per via del calciatore paraguaiano Dionisio Arce, un centravanti indisciplinato e geniale, noto agli sportivi per lunghe squalifiche dovute a un caratterino bizzoso, che negli anni Cinquanta gioca nel Novara di Silvio Piola e nel Torino con Lido Vieri, per poi passare a Palermo e Spal. Pare proprio che il motivo del soprannome sia questo, come riferiscono Fabrizio Chelotti (che ne aveva avuto conferma da Edo Topi) e Lio Bastianini, entrambi grandi amici di Raspollini. Sono molte le similitudini con il nostro Arce, infatti una volta terminata l’attività professionistica il calciatore paraguaiano si ritira a Bracciano dove allena alcune squadre laziali, organizza tornei rionali e segue giovani calciatori.
Un’altra tesi sul soprannome proviene dalla sua grande passione pugilistica, perché Sergio era un fan del campione afroamericano Archie Moore, detentore del titolo dei mediomassimi dal 1952 al 1962, al punto che seguiva ogni incontro e ne parlava sempre con gli amici. Va da sé che a Trastevere, dove i soprannomi erano all’ordine del giorno, la pronuncia nordamericana di Archie non poteva essere corretta, ma veniva tradotta nel più vernacolare Arce.
Numerose conferme fanno propendere per la prima tesi, anche se Arce era un grande appassionato di boxe, come del resto tutti quei personaggi che orbitavano in Trastevere, e che spesso si ritrovavano all’ Unghia Nera (ora Taverna dei Boncompagni) per memorabili mangiate e bevute, trattoria frequentata da pugili locali come Casti, Corallini, Ricci, Guzzo, in compagnia spesso di campioni del calibro di Mazzinghi e Bossi.
Sergio era basso e robusto, quasi sovrappeso, capelli d’un bianco intenso, sguardo indagatore, soprattutto per capire se eri portato o meno per fare il calciatore, vocione profondo che incuteva timore. Aveva una passione smodata per il calcio, se ne intendeva pure, al di là dei sistemi originali di allenamento (soprattutto dietetici) e delle leggende che si narrano sul suo conto. Il suo vero lavoro consisteva nel gestire un negozio di frutta e verdura in via Giordano Bruno, vestito con un perfetto camice bianco, quasi da macellaio; per compagno aveva un gattone enorme di oltre dieci chili che alimentava con grandi fette di mortadella.
Arce è stato allenatore di un’intera generazione di ragazzi, sia nel Salivoli sia nel Trastevere, ma anche di squadre amatoriali che guidava con un piglio e una passione tali da far sembrare le partite che disputava delle finali di un campionato mondiale.
Altra passione di Arce era quella per la tavola, dove non invecchiava, ma oltre al buon cibo amava il vino genuino e se lo portava sempre appresso, anche in panchina, mettendolo nella fiaschetta per il liquore. Memorabili le cene da Toni Fidenzio per festeggiare qualche (rara) vittoria o per preparare una trasferta, passione comune al più titolato collega Lamberto Pazzi, suo grande amico, che in quel tempo allenava il Piombino.
Un giorno accadde che Pazzi venne esonerato dalla squadra nerazzurra che non stava disputando un buon campionato di Serie D, perciò il padre padrone trasteverino Pietro Notturni mise in scena un finto esonero di Arce per mandare in panchina Pazzi. Va da sé che non avrebbe potuto farlo, perché il regolamento vietava a un allenatore semiprofessionista di sedere su una panchina di Terza Categoria, inoltre Pazzi era già tesserato (seppur esonerato) per un’altra squadra, ma si sa che ai regolamenti il buon Notturni dava il giusto peso e per tre domeniche lasciò che fosse Pazzi a guidare la sua squadra, fino a quando una spiata in Federazione non portò a una rapida marcia indietro, con il ritorno di Arce. Sergio ha guidato anche la squadra amatoriale di Renzo Sicari, l’Automec, dove ha giocato anche il mio amico Giovanni Del Pia nelle stagioni 1983/84 e 84/85, che ricorda molto bene una battuta del Presidentissimo, detta una sera che faceva un gran caldo: “Ci son certe zanzare che sembrano alicotteri!”. Ma nessuno batteva Arce, quanto a battute, basti dire che un giorno raccontò che era stato a San Siro per veder giocare la sua Inter, ma visto che le cose andavano male, si era posizionato sugli spalti dietro la panchina di Helenio Herrera per gridare tutta una serie di suggerimenti tecnici che il grande allenatore nerazzurro avrebbe subito messo in pratica. Ricordiamo anche una trasferta elbana dove partì baldanzoso dicendo di non aver paura del focoso pubblico locale, ma rientrò malconcio dopo aver subito un assedio fin quasi alla nave da parte di alcuni facinorosi che lo ritenevano responsabile di un intervento falloso sul campo di gioco.
Dario D’Avino, che l’ha conosciuto da ventenne nei tornei amatoriali, lo ricorda come una persona d’oro: “Viveva per il calcio, per un calcio popolare che aveva nel sangue e che ci raccontava con storie (vere o false non importa) del suo Trastevere. Io e i miei compagni lo ascoltavamo divertiti, a volte increduli, ma sempre con rispetto, perché era una persona che si faceva voler bene. Per lui non ero Dario, mi aveva ribattezzato, non so perché, Davide. Per Arce sono sempre stato Davide; dopo un po’ di tempo non provavo neppure a correggerlo. Quando giocavo con lui mi metteva in campo da attaccante di fascia, ma ogni volta, qualunque fosse il risultato, al decimo minuto esatto del secondo tempo mi invertiva da sinistra a destra. Non si poteva non volere bene ad Arce! Con quegli occhi che sorridevano più della bocca, quell’andatura claudicante, quella voglia di insegnare il suo calcio a noi ragazzi che calcavamo il campo spelacchiato di Fiorentina e che andavamo a leggere le convocazioni nel suo negozio di frutta e verdura. Quel calcio che (almeno così narrava) aveva impressionato anche Helenio Herrera!”
Grande Arce che ti ho conosciuto poco, ho fatto appena in tempo ad arbitrarti in qualche gara di calcio giovanile, ma il tuo sguardo buono è impresso nella memoria di tutti noi piccoli calciatori cresciuti a pane e rigori sbagliati tra le mura antiche del Campino Marrone.