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Attualità domenica 09 settembre 2018 ore 08:25

La battaglia di Piombino

In occasione delle celebrazioni in ricordo della battaglia di Piombino, Gordiano Lupi su #tuttoPIOMBINO ripercorre quella pagina di storia



PIOMBINO — La battaglia del 10 Settembre 1943 fu prodotta da un sentimento antifascista presente nella società piombinese. Il dissenso della nostra città nei confronti della dittatura di Benito Mussolini è certificato dai molti perseguitati politici, dal gran numero di persone schedate nel Casellario Politico Centrale, dalle decine di confinati, dai molti deferiti al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, in seguito incarcerati e limitati nella sfera della libertà personale, dalle vittime delle persecuzioni squadriste.

Il 10 settembre 1943 fu un sollevamento popolare spontaneo. Piombino rifiutava il nazismo e aborriva la restaurazione del fascismo. Stava rinascendo il senso della patria e di un’appartenenza condivisa alla nuova società democratica, ancora tutta da costruire. La parola patria non andava intesa come nel ventennio della retorica fascista, incarnava valori di indipendenza e libertà, significava rivolta nei confronti dell’invasore nazista. 

Lo storico Ivan Tognarini ricorda che “fino a quando fu possibile combattere, civili e militari, operai e commercianti, soldati, finanzieri e ufficiali subalterni, reagirono con forza e decisione, infliggendo all’aggressore una delle sconfitte più dure che esso abbia subito in quelle giornate da parte italiana”. 

La Battaglia di Piombino fu una manifestazione forte di marinai, soldati, ufficiali e soprattutto civili, operai e cittadini, contro un tentativo di sbarco e di occupazione della città, del porto e degli impianti siderurgici da parte dei nazisti dopo il proclama dell’armistizio diffuso da Pietro Badoglio. I soli a non combattere furono i generali dell’esercito, contrari a battersi contro i nazisti. Fu colpa anche loro se si arrivò alla resa di Piombino, con le tristi conseguenze che sappiamo. I tedeschi si impadronirono delle fabbriche cittadine e utilizzarono l’acciaio come deposito di riserva per le loro armate. Piombino dovette subire l’umiliazione di vedere intitolare il viale del porto ad Adolf Hitler e l’area portuale teatro della battaglia divenne “Piazzale degli Eroi tedeschi”. 

Il marinaio Giovanni Lerario, ferito durante il combattimento, morì in ospedale pochi giorni dopo. Lerario avrà una strada dedicata - nella zona nuova della città - solo al termine della guerra, con la vittoria degli alleati. Nel corso della battaglia di Piombino morì anche il sottobrigadiere della Guardia di Finanza Vincenzo Rosano, ferito alla gola mentre posizionava un fucile mitragliatore. Morirono anche il marinaio Giorgio Perini e il civile Nello Nassi.

La battaglia di Piombino fece nascere un nuovo sentimento libertario, 100 morti tedeschi e 400 prigionieri non furono cosa da poco, e servirono a creare un nuovo senso di patria e di Italia democratica. Sulle ceneri di una vittoria mancata (per la resa decisa dal generale De Vecchi) sorsero gruppi partigiani come quello di Poggio alla Marruca (comandato da Federigo Tognarini) e la Banda dei Massetani, in località Marsiliana, (comandata da Elvezio Cerboni). Tutti gruppi che, insieme ad altri dislocati nelle boscaglie e nelle colline circostanti, sarebbero confluiti nella Terza Brigata Garibaldi. Nasceva la Resistenza, un grande anelito di libertà e una voglia di riscattare la dignità nazionale, per respingere le forze naziste e riconquistare l’indipendenza.

Nel 1979, Piombino ha ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor Militare, ma nel 2000, dopo la scoperta di nuovi documenti storici, grazie al grande lavoro di Ivan Tognarini, la medaglia è stata trasformata in Oro. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha consegnato la medaglia al sindaco della città e da quel giorno l’onorificenza adorna il gonfalone della città.

Piombino non fu meno democratica quando si trattò di votare al Referendum Costituzionale del 2 giugno 1946, perché l’89,9% della popolazione votò Repubblica.

L’8 settembre portò la fuga del re e del maresciallo Badoglio, ma anche la dissoluzione di un esercito allo sbando. A Piombino arrivavano i tedeschi. Era il 10 settembre, poco prima dell’alba, si vedevano in lontananza alcune unità da sbarco, diverse motolancie, un piroscafo da carico e due cacciatorpediniere. Erano comandate dal generale Albrand, chiedevano di entrare in porto per rifornirsi di acqua e di carbone, ma il comandante di Marina di Piombino - capitano di fregata Amedeo Capuano - rifiutava l’autorizzazione. Fu il generale De Vecchi - subdolo quadrumviro fascista e traditore - a ordinare di aprire gli sbarramenti del porto, consapevole che voleva dire far entrare i tedeschi a Piombino, non certo con intenzioni pacifiche. Gli operai che uscirono dal turno di notte si accorsero di quel che stava accadendo, intuirono il tradimento dei generali, si armarono e corsero in centro, alle caserme, alle batterie, ai depositi di armi, imbracciando fucili, impossessandosi di dinamite, bombe e granate. Erano cinque le batterie da guerra. Punta Falcone, Montevento, Montecaselli, Montemazzano, Poggio al Molino. Il popolo voleva combattere e respingere l’aggressione nazista, temendo che potesse rappresentare l’avanguardia di un ritorno fascista, al tempo steso chiedeva ai soldati e agli ufficiali in fuga di restare a proteggere la città. Ci fu un conflitto a fuoco con i carabinieri che eseguivano gli ordini di De Vecchi e volevano sedare la rivolta, ma il maresciallo Rigoldi arringò la folla, al grido di “Viva il Re, viva Badoglio, abbasso i tedeschi!”. I generali - tra tutti Fortunato Perni - non volevano combattere, asserivano che i tedeschi volevano attraccare solo per rifornirsi di carbone e vettovaglie. Non era vero e lo sapevano bene. Il popolo gridava al tradimento e dette vita a un sollevamento spontaneo, guidato da Renato Ghignoli che condusse la folla verso la batteria di Montecaselli, dove i marinai collaborarono con i rivoltosi. I soldati, intanto, scappavano; tornavano a casa, in treno, come nel film di Monicelli. Gli operai piombinesi cercarono di convincerli a restare e a combattere al loro fianco contro l’invasore tedesco. “Dovete combattere per la libertà! Per la patria!”, diceva il Dani. Adriano Vanni, invece, chiedeva di lottare per la fine della guerra e per la vittoria della classe operaia. Come abbiamo detto, gli operai si armarono come poterono: bombe fatte in casa, dinamite, persino esplosivo che in molti usavano per la pesca di frodo. Alle dodici in punto i tedeschi sbarcarono, occuparono il porto, la capitaneria, disarmando i marinai e i militari della guardia di finanza che non opposero resistenza. I soldati tedeschi dilagarono negli stabilimenti, al semaforo, nella zona della linea ferroviaria, al semaforo, fino a Capezuolo. I piombinesi usarono i carri armati contro i tedeschi, quindi verso le tredici mossero in direzione del porto, ma anche nella zona di Cotone e Portovecchio, guidati dal generale Perni. Il popolo voleva cacciare i tedeschi senza tergiversare, un gruppo di coraggiosi piombinesi s’impossessò di bombe a mano e moschetti, armando l’intera città. Alcuni ufficiali filofascisti e di simpatie monarchiche, purtroppo, volevano mettersi d’accordo con i tedeschi, rifiutando di farsi comandare da operai comunisti e anarchici. Il comando militare, intanto, dette l’ultimatum ai tedeschi, mentre il contrasto tra le alte gerarchie militari divenne insanabile, creando un vuoto di potere. Il generale De Vecchi voleva collaborare con i tedeschi, quindi il comandante Capuano venne destituito, ma il sostituto - capitano di corvetta Giorgio Becherini - collaborò con il Comitato antifascista e continuò le ostilità contro le truppe germaniche. Arrivarono carri armati da Venturina, molti rinforzi dettero aiuto ai cittadini piombinesi, le batterie difensive fecero fuoco con una valanga di colpi che si abbatterono sulle navi attraccate nella zona portuale. Alle tre del mattino i tedeschi cessarono il fuoco e constatarono la sconfitta: soltanto una nave era scampata al bombardamento piombinese. La banchina del porto mostrava un orribile spettacolo di morti e feriti. Don Ivo Micheletti - prete di Piombino - si dette un gran da fare per curare e confortare i feriti di entrambe le nazionalità. I tedeschi che si trovavano nella zona del Cotone, alla stazione e dentro gli stabilimenti si arresero; trecento prigionieri sfilarono per le vie cittadine, circondati da due ali di folla in festa. Purtroppo, a battaglia vinta, il generale De Vecchi perfezionò il tradimento, ordinando il rilascio immediato dei prigionieri e la resa delle truppe italiane ai tedeschi. Si toccava l’assurdo e il ridicolo: i soldati tedeschi si erano arresi agli operai, mentre l’esercito italiano si arrendeva ai tedeschi sconfitti! Il 12 settembre 1943, i tedeschi tornarono dal mare e da Venturina, occupando Piombino. Tornarono anche i fascisti con un nuovo segretario repubblicano: Placido Piagi. La lotta non era finita. A coloro che avevano combattuto nella gloriosa notte del 10 settembre 1943, si aggiunsero altri volontari di tutta la zona, dando vita alla Terza Brigata Garibaldi, che dopo mesi di battaglie - Frassine, Monterotondo, Massa Marittima, Suvereto, San Vincenzo e San Carlo -, il 25 giugno 1944 i partigiani entrarono in Piombino, dove furono raggiunti dalle forze della 39° Divisione della Quinta Armata statunitense.

Tratto da Storia popolare di Piombino, di Gordiano Lupi, Edizioni Il Foglio

Gordiano Lupi
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