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Attualità domenica 03 aprile 2022 ore 08:42

La vera storia di Alessandro Appiani

Su #tuttoPIOMBINO di QUInews Valdicornia Gordiano Lupi propone il racconto da cui è stato tratto il film di Stefano Simone in uscita nel 2023



PIOMBINO — L’uccisione di Alessandro Appiani

1. Il fantasma di Alessandro Appiani

A Piombino la figura storica del principe Alessandro I Appiani è circondata da un alone di leggenda. Tutto comincia con il suo assassinio datato 28 settembre 1589. Il fatto ebbe risonanza internazionale perché riguardava la violenta eliminazione del capo di un piccolo stato che aveva una grande importanza economica e strategica per la sua posizione geografica. La storiografia ufficiale ci tramanda l’assassinio di Alessandro come conseguenza del comportamento frivolo e dissoluto del principe. Rifiutiamo questa facile spiegazione, confortati dalla documentata ricerca storica di Mauro Carrara. L’episodio non fu una sollevazione popolare contro un signore dispotico, né la vendetta di una famiglia insorta per garantire l’onore di una propria componente. Fu invece una congiura ordita dalle più importanti famiglie piombinesi con la partecipazione della moglie Isabella di Mendoza e di Don Felix de Aragona, il comandante del presidio spagnolo che da tempo aveva una relazione con la principessa. Furono proprio gli spagnoli a occultare le prove della congiura e a impedire al condanna dei responsabili, anche perché alla morte di Alessandro il potere passò nelle mani di Don Felix che lo esercitò tramite Isabella, reggente del figlioletto Iacopo VII. Il comportamento di Alessandro verso i suoi sudditi in realtà non fu così dispotico come si è voluto far credere e l’unica debolezza che si può imputare al Signore riguarda la sua grande passione per le donne. Arrogante fu invece il presidio della guarnigione spagnola di stanza nel principato, un vero e proprio padrone in terra straniera. Per questo motivo i rapporti tra Alessandro e Don Felix furono pessimi, al di là della scandalosa tresca tra la moglie Isabella e lo spagnolo. La morte di Alessandro fu violenta e atroce. Il fattaccio accadde in via Trapalazzi (oggi via Giuseppe Garibaldi), all’angolo di via di Malpertuso. Il principe venne ucciso da cinque sicari con colpi di archibugio e quindi finito con pugnali e alabarde. Ancora oggi nella strada del centro storico di Piombino c’è una lapide che recita: “Sotto il ferro dei congiurati, complice Isabella sua moglie, qui cadde estinto Alessandro I Appiani, signore di Piombino, la notte del 29 settembre 1590” (in realtà la vera data è il 28 settembre 1589). Dice la leggenda che Alessandro, colpito a morte, si sorresse a quella lapide per cercare scampo dai suoi assassini. I vecchi piombinesi narrano che tra le mura delle case dove avvenne l’eccidio si odono ancora i lamenti di Alessandro. Ogni anno, verso la fine del mese di settembre, il suo spirito torna a infestare una casa disabitata di via di Malpertuso. Torna per accusare la moglie e i falsi amici, per chiedere che venga salvato il figlio dalle mani degli spagnoli. Ma forse sono soltanto leggende. Storie narrate dai vecchi tanti anni fa. Nelle pagine che seguono ho cercato solo di romanzare la storia del suo assassinio.

2. L’omicidio di Alessandro Appiani

Alessandro si affacciò al balcone del palazzo che dalla Cittadella scopriva il mare e assaporò il profumo di salmastro e delle tamerici. Era una mattina di fine settembre del 1589. Un fresco maestrale solcava il canale e i gabbiani si gettavano tra le onde a caccia di facili prede. Le paranze erano uscite per mare e le popolane si affollavano alle fonti della Marina per la consueta provvista d’acqua. Lui era appena rientrato nella capitale. ”C’è bisogno di te” avevano scritto i pochi amici che ancora gli restavano. Alessandro aveva capito che gli affari da sbrigare a Fosdinovo erano meno importanti. Doveva tornare a Piombino. Gli anziani stavano alzando la testa e gli spagnoli pure. Occorreva il suo pugno di ferro per mettere a posto le cose.

Imbandirò qualche forca e farò un po’ di pulizia. Ogni tanto ce n’è bisogno. Pensava.

In realtà sarebbe bastato molto meno. La sua presenza avrebbe scoraggiato tante pretese. Il vicario e gli anziani erano in disaccordo ma lui sapeva come mettere ognuno al suo posto. La moglie Isabella aveva ordinato qualche arresto per placare le acque. Ma non era sufficiente. E così Alessandro era partito. Da Fosdinovo a Piombino aveva attraversato paludi malsane, stupende calette sul mare, foreste di lecci e cipressi, arenili deserti. Finalmente aveva toccato Porto Baratti e la campagna che si apriva davanti alla capitale, quindi era entrato dalla Porta a Terra e aveva raggiunto il palazzo della Cittadella.

Alessandro non aveva un buon carattere. Gli anziani non lo amavano e il popolo lo temeva. Mancava di diplomazia, utilizzava metodi spicci e cruenti per risolvere i problemi. Non era capace di abbindolare nessuno, non possedeva l’oratoria di chi lo aveva preceduto. Però era un uomo leale, un combattente, un rude guerriero che amava la sua terra. Lottava per l’indipendenza di quel piccolo stato più di quanto avessero fatto in passato i componenti della famiglia Appiani.

Alessandro uscì in veranda per la colazione. Un tiepido sole riscaldava la mensa solitaria, pochi passerotti cercavano piccoli avanzi, gabbiani regali volavano come sentinelle sulle torri del palazzo. Da quel posto Alessandro poteva dominare la sua terra, quel piccolo stato dove tornava volentieri per riposare da battaglie e avventure. In lontananza vedeva il confine della Torre Nuova di Baratti, poi Punta Galera, Cala delle Tamerici e Cala Moresca, fino alla Torre della Troia, passando per Porto Falesia, Torre Mozza e Follonica. Non c’era luogo del principato che non avesse toccato. Non c’era paese che non avesse difeso. Davanti agli occhi aveva l’Isola d’Elba, poi gli isolotti di Cerboli e Palmaiola, infine Montecristo e Capraia, lontanissime e deserte. Poteva solo immaginare i castelli di Scarlino e Montioni e le campagne di Suvereto, le paludi da bonificare, i fiumi Pecora, Cornia e Cosimo che formavano qua e là piccoli stagni e laghetti. Quella era la sua terra e là voleva morire. Se solo avesse saputo farsi amare dagli anziani e dal popolo come era riuscito ai suoi avi tutto sarebbe stato perfetto. Era la cosa più difficile, purtroppo. Alessandro non riusciva a tenere vicina neppure la sua famiglia. Isabella era una moglie che pensava soprattutto all’interesse di stato e i rapporti con il marito erano formali e distaccati. Oltre tutto lei faceva in modo che il figlio frequentasse poco il padre e lo affidava a educatori e precettori. Il principe, quando era a Piombino, si ritirava nella solitudine della veranda a scrutare il mare e a scrivere un memoriale. Certo, la sua vita era fatta di pene e di rimpianti. Suo figlio, per esempio. Avrebbe voluto vederlo più spesso e insegnargli quel che doveva sapere sull’arte della guerra e su come tenere a bada fiorentini, pisani, spagnoli, mori e pirati. Lui sapeva bene come si difendeva uno stato. Alessandro non era un diplomatico. Preferiva le armi alle trattative. I suoi rapporti con Don Felix de Aragona, il capitano spagnolo che controllava il principato in nome dell’imperatore, non erano facili. Lui non avrebbe voluto quella convivenza imposta dall’esterno e non riusciva a trattare con gli spagnoli. Non sopportava la loro alterigia. Per questo Alessandro delegava spesso Isabella. La moglie era di famiglia iberica e con Don Felix si capivano al volo. Sin troppo. La bella principessa si faceva accompagnare dal capitano persino ai balli di corte. A Piombino cominciò a correre voce che Isabella fosse l’amante di Don Felix e la diceria giunse all’orecchio di Alessandro. Era vero? Non lo sapeva e non gli interessava più di tanto. Ciò che aveva a cuore era che Isabella tenesse a bada l’arrogante spagnolo mentre lui pensava alle incombenze del piccolo stato. In realtà non aveva mai amato Isabella. Era solo la lontananza dal figlio a farlo soffrire. Alessandro uscì dal palazzo di Cittadella con una piccola scorta e rispose ai saluti di sempre. Nobili, anziani e semplici popolani si inginocchiarono al suo passaggio. Ma c’era qualcuno tra loro che provava davvero affetto verso di lui? A questo pensiero un brivido percorse le sue membra. Alessandro poteva dirsi temuto, non certo amato. Era un uomo solo e si consolava pensando che quello era il prezzo del potere. I suoi pochi amici erano Iacopo Calefati e il capitano Francesco Belloni, oltre all’anziano Domenico Vecchioni. Era con loro che faceva tardi nelle osterie della Porta a Mare a bere, a parlare del passato e di come avrebbe voluto modificare il presente. Sembravano d’accordo nel volere un principato libero, senza la fastidiosa presenza spagnola. Restava il fatto che gli spagnoli erano gli unici tutori della libertà, con le guarnigioni spianate sul porto, con gli archibugi protesi contro i pirati e gli attacchi moreschi. Anche quella sera Alessandro avrebbe cenato all’osteria del Gatto Nero in Piazzetta dei Grani con gli amici Belloni e Calefati. Una cena per salutare il suo rientro nella capitale alla fine del mese di settembre dell’anno 1589. Furono servite molte portate a base di pesce fresco, cucinato con spezie oppure cotto sui carboni ardenti, innaffiato con vino dell’Elba e delle tenute di Vignale e Montioni. Quando i tre amici uscirono all’aria aperta sembravano più allegri del solito, passarono dalla Marina per rinfrescarsi con l’acqua corrente dei Canali, poi risalirono per la Porta a Mare e presero via Trapalazzi, un vicolo buio e stretto dove a quell’ora non passava un’anima.

Alessandro si sentiva tranquillo in compagnia del fido capitano Belloni e dell’amico Calefati, sapeva che insieme a loro non aveva niente da temere. Erano i soli amici che aveva. Mentre camminava e assaporava l’aria fresca della notte pensava a quel che restava da fare per la sua città. Nuove fortificazioni per renderla più inaccessibile, strade da lastricare, palazzi da decorare, chiese da affrescare, spettacoli per il popolo…. Alessandro era immerso nei sogni quando il primo colpo di archibugio lo colpì allo stomaco. Sentì un dolore caldo e non si rese neppure conto di quel che stava accadendo. Il secondo colpo lo raggiunse al petto e lo fece cadere nella polvere del selciato.

Isabella, dove sei? pensò.

Isabella in quel momento sorrideva abbracciata a Don Felix e pensava al piccolo Iacopo VII sul trono e a se stessa futura reggente. Dopo quella notte Alessandro non avrebbe più rappresentato un problema.

“Amici, mi stanno uccidendo!” ebbe appena la forza di gridare.

Attorno a sé vide soltanto sorrisi beffardi. Comprese d’un tratto che lo avevano condotto a morire. Un ultimo colpo di archibugio deturpò il suo viso. Forse recitò una preghiera. Forse no. Alessandro non era un uomo di chiesa. Alzò appena gli occhi e vide Domenico Vecchioni con altri energumeni armati di alabarde e spade. Lo trafissero più volte. Domenico si avvicinò. Alessandro lo supplicava con gli occhi di salvarlo. Fu la sua spada a dargli il colpo finale. E fu proprio Domenico il primo a gridare: “ È stato ammazzato il Signore!”

3. Il ruolo di Silvia Lazzeri

In merito all’omicidio di Alessandro Appiani va citata l’opinione di Enrico Sole, visto che la mia ricostruzione pecca di un eccesso di romanzato e forse di troppa benevolenza nei confronti del Signore di Piombino. Nella mia storia non faccio alcun riferimento alle numerose tresche amorose del Signore e al fatto che non perdeva occasione per correre dietro a tutte le sottane che incrociavano la sua strada. Pure Iacopo Cesaretti ci descrive Alessandro come un uomo dissoluto e dedito ai piaceri della carne. Enrico Sole dà molta importanza a una figura femminile che apparteneva alla nobile famiglia Lazzeri. Alessandro si era invaghito di lei e voleva aggiungere un altro facile amore alla sua collezione di donne piombinesi. Un giorno mentre Alessandro vagava era diretto in Cittadella passò per via Trapalazzi e vide uscire dalla casa di Vecchioni la bella Lazzeri. Non sappiamo il vero nome della fanciulla e così la chiameremo Silvia perché ci piace e si adatta bene a un amore non concluso dello sfortunato Appiani. Alessandro ardeva di desiderio per la bella Silvia, la seguì e le lanciò audaci profferte d’amore ma lei tirò avanti. Alessandro non era solito fermarsi davanti a piccoli ostacoli e continuò a insistere fino a quando la ragazza decise di invitarlo a casa sua. Alessandro era convinto di aver raggiunto il suo scopo e grande fu il suo disappunto quando in casa Lazzeri non trovò Silvia, bensì quattro fratelli della ragazza che lo salutarono e lo riaccompagnarono in Cittadella. La beffa dei Lazzeri fece il giro della città e Alessandro in preda all’ira si vendicò dei quattro fratelli e li spedì in esilio uno dopo l’altro. Alessandro non si dette per vinto e continuò la sua corte serrata verso Silvia, tanto che la ragazza non poteva più uscire di casa senza incontrarlo. La tesi di Enrico Sole sul delitto Appiani è quella della vendetta da parte della famiglia Lazzeri. Il padre di Silvia aveva preso molto male la storia dei figli in esilio e non sopportava che sua figlia non potesse uscire di casa senza subire le insidie del Signore. Vero è che i Lazzeri non risultano nella lista dei congiurati, ma è altrettanto vero che una volta salito al potere Cosimo Iacopo VII, figlio di Alessandro, i membri della famiglia Lazzeri sparirono tutti. Lo sventurato padre della fanciulla fu messo dentro una botte piena di chiodi e fu fatto rotolare per Via Trapalazzi. Tra l’altro i cinque esecutori materiali del delitto erano amici intimi dei Lazzeri. Questa ricostruzione scagiona Isabella e Don Felix e riconduce l’omicidio a un regolamento di conti familiare e a una storia di amori contrastati. Però lo stesso Enrico Sole si chiede come mai Don Felix mise in libertà gli arrestati e non fece niente per punire i congiurati. Questo atteggiamento, unito al fatto che la relazione con Isabella era cosa di dominio pubblico, ha fatto dire a molti che Alessandro è stato ucciso per ordine del governatore spagnolo e della sua amante. Tanto più che dopo la morte di Alessandro la relazione tra i due fu così palese e sfacciata che Don Felix ebbe pure l’ardire di chiedere la mano di Isabella. Il padre di lei rispose con un secco rifiuto. Don Felix si proclamò addirittura Signore di Piombino e sciolse ogni legame con gli Appiani. Il popolo però non lo amava e fu per merito delle Comunità di Suvereto, Scarlino e Campiglia, che Ferdinando I, granduca di Toscana, intervenne presso Filippo II per far eleggere come Signore Cosimo Iacopo, figlio di Alessandro. Cosimo Iacopo fece subito giustiziare gli uccisori del padre: Ciapino Pagnani, Mazzaferrata Mazzaferrati, Giovanni Volpi e Filippo Verracchio. Domenico Vecchioni invece si suicidò nella prigione della Rocchetta e il padre della Silvia Lazzeri venne fatto rotolare in una botte chiodata. Altra curiosità storica è che della bella Lazzeri non si ebbe più alcuna notizia e neppure dei suoi fratelli autori della nota beffa. La morte di Alessandro era vendicata.

4. Conclusioni

Alessandro I Appiani è la figura più affascinante di tutta la lunga storia del Principato di Piombino. Uomo schivo e introverso, donnaiolo impenitente, persona dal pessimo carattere, rude guerriero e leale combattente. Si piegò al volere di stato e contrasse un matrimonio di interesse con Isabella di Mendoza, per assicurare al principato di Piombino la protezione spagnola. Caso volle che fosse la stessa Isabella a tradirlo e condurlo a morte. Via di Malpertuso fu la sua tomba in una sera di settembre e la lapide sta ancora là a perenne memoria dell’eccidio. Per le vie strette del centro storico di Piombino, quelle che portano alla stupenda terrazza sul mare di Piazza Bovio, c’è chi giura di sentire ancora i suoi lamenti. Accade nelle sere di settembre, quando soffia il libeccio e si fa strada tra palme e tamerici. Quando tutti i rumori sembrano porte che cigolano e la notte dà corpo a mille paure. Alessandro rincorre Isabella e i suoi tradimenti. Per l’eternità.

Bibliografia

Licurgo Cappelletti “Storia della città e Stato di Piombino” - Giusti Livorno, 1897

Mauro Carrara “Signori e principi di Piombino”, La Tarsinata collana di storia locale - Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 1996

Enrico Sole “Storie e leggende della città degli Appiani e dei Boncompagni Ludovisi” – La Perseveranza, Piombino 1935

Gordiano Lupi
© Riproduzione riservata


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