Pierantonio Pardi ha insegnato letteratura italiana all’ITAS “ Santoni” di Pisa fino alla pensione. Il suo esordio narrativo è stato nel 1975 con il romanzo "Testimone il vino" , ristampato nel 2023 sempre dalla Felici Editore, nel 1983 esce "Bailamme" (ristampato nel 2022 con Porto Seguro editore). Negli anni seguenti ha pubblicato come coautore “Le vie del meraviglioso” (Loescher,1966), “Il filo d’Arianna (ETS, 1999) e da solo “Cicli e tricicli” (ETS 2002), “Graaande …prof (ETS, 2005) e “Il baffo e la bestia” (ETS 2021), "Erotiche alchimie" (ETS,2024) e "La disgrazia di chiamarsi Lulù" (Felici Editore, 2024). Ha curato l’antologia “Cento di questi sogni” (MdS, 2016) ed è direttore editoriale della collana di narrativa “Incipit” (ETS)
di Pierantonio Pardi - mercoledì 15 febbraio 2023 ore 08:00
Credo sia venuto il momento di rendere omaggio ad uno scrittore toscano, spesso sottovalutato dalla critica e ignorato in quasi tutte le antologie scolastiche e, nei pochi casi in cui vi compare, definito frettolosamente, un verista minore, un regionalista; affermazioni entrambe prive di senso e dopo vedremo perché.
Lo scrittore di cui voglio parlare è Renato Fucini., nato a Monterotondo presso Massa Marittima l’8 aprile 1843. Il padre, David, fa parte come medico della commissione governativa della cura delle febbri malariche e infatti nel 1844 si trasferisce con la moglie, Giovanna e il figlio a Campiglia dove risiederà fino al 1849. A questi anni sono legate le prime esperienze importanti del giovanissimo Renato, nel contatto con gli animali e la natura della Maremma grossetana.
Quando il padre verrà trasferito a Vinci, Renato va a studiare ad Empoli sotto la guida del canonico Rossi che riesce a farlo arrivare all’Università. Studia a Pisa, prima Medicina, poi Agraria in cui si diploma, ma in quegli anni sta maturando la sua vocazione di scrittore che si manifesta nei sonetti in vernacolo pisano: I cento sonetti in vernacolo pisano a cui faranno seguito nel ’79 i Cinquanta nuovi sonetti
Riporto a mo’ d’esempio, il primo dei cento sonetti, quello che apre la raccolta:
I. La tentazione.
Silvio. Chi legge e' tu' sonetti se ne vanta. Neri, fàlli stampa', dàlli ar (1) Baccelli: (2) Credi, a sentilli di', propio si stianta: Fanno vieni' 'r convurso 'n de' budelli.
Neri. Che ti piaccian' a te ? Silvio. Madonna Santa ! L'artra sera li dissan dar Maestrelli, (3) Credevo di scoppia' : s' era 'varanta; (4) S' andò tutti attravelso alli sgabelli.
Ti devi figura' che un disgraziato, Per ave' detto: sanno di poino, (5) Lo feciano anda' via mezzo stroncato.
'Gnamo, (6) fàlli stampa', fàlli, Nerino. Che t'impolta se c' è quarche sagrato ? Nun lo stamponno 'r Tasso?... o 'r Satulnino?! (7)
Firenze, 1871.
1.al. 2. Noto lunario molto accreditato nel contado e nel volgo toscano. 3. Caffè che prende nome dal suo proprietario ed è frequentato soltanto dai popolani di Pisa. Trovasi sotto il loggiato del Borgo. 4. quaranta. 5. pochino. 6. Andiamo. 7. Libro osceno.
Tra le due raccolte poetiche si colloca un’opera in prosa, una sorta di reportage richiestogli dal Villari sulle condizioni del popolo napoletano: “Napoli ad occhio nudo”; il risultato di questo breve incarico è stata una traumatica corrispondenza giornalistica in forma epistolare in cui si parla dei quartieri dei poveri e delle scene viste al camposanto vecchio. Nota, a questo proposito Italo Calvino:
“ Napoli a occhio nudo va interpretato (…) come un documento di come l’Italia post risorgimentale prendeva coscienza della propria diversità interna, con uno spavento proporzionale alle precedenti illusioni unitarie
Nel frattempo Fucini si è dedicato all’insegnamento, rivestendo anche la carica di Ispettore scolastico, passaggio importante questo, perché è proprio grazie a questo incarico che gli consentiva di viaggiare nei paesi della campagna toscana, che nascono le pagine delle Veglie di Neria cui seguiranno, successivamente, i racconti di All’aria aperta nel 1887 e quelli di Nella campagna toscana nel 1908
Nelle ultime opere il motivo scolastico si sostituisce invece decisamente a quello artistico come si può riscontrare nei due libri di lettura per le elementari Mondo nuovo e Mondo vecchio.
Dicevo all’inizio di come Fucini fosse stato definito frettolosamente un verista minore, un regionalista. Ora, chiariamo una cosa: quando si parla di Verismo, in Italia, non si va mai oltre i nomi di Verga, Capuana, De Roberto e Matilde Serao, anche se Verga resta il verista per antonomasia.
Fucini non è un verista perché non adotta, come Verga, l’eclisse dell’autore, non si nasconde dietro i personaggi, adottandone il loro punto di vista, ma si limita semplicemente a descriverli nelle situazioni tragiche così come in quelle umoristiche e alterna il ruolo di narratore esterno ed interno, in funzione delle novelle che racconta.
Nota acutamente G.A. Cibotto:
“ Purtroppo fino ad oggi, salvo poche, lodevoli eccezioni, il suo sodalizio (di Fucini, ndr) con i pittori ottocenteschi (macchiaioli ndr) ha finito per dilatare sull’intera sua produzione la “macchia” del bozzettismo (…) Mentre è vero esattamente il contrario, dato che non soltanto nei momenti più riusciti, soprattutto delle Veglie di Neri, Fucini ha superato il limite bozzettistico pervenendo alla scansione più tesa del racconto vero e proprio (…) il riso in Fucini scattava quale correttivo d'una visione pessimistica, sconsolata (…) Già l’aver scelto un paesaggio umano di emarginati, illustrando il chiaroscuro di un’ Italia dimenticata, implicherebbe un punto all’attivo del suo impegno civile, ma l’essere arrivato alla denuncia usando i toni smorzati, denota che Fucini ai personaggi delle sue Veglie aveva donato parte di se stesso, lo scordato strumento, cuore” [1]
Riguardo, poi, alla tecnica narrativa, è vero quello che scrive ancora Cibotto:
“ E’ vero che in numerosi passaggi, e più ancora nel rapido precipitare della chiusura, quando la porta del destino si chiude inesorabilmente alle spalle del Matto, di Batone, dei disperati che vanno in Maremma, dell’innamorata Fiorella travolta dalla follia, e degli altri protagonisti maggiori e minori (…) Fucini pare come prendere le distanze, suggerendo l’immagine di un abile burattinaio che si accinge a tirare i fili regolanti i movimenti dei suoi popolareschi eroi. (…) ma proprio dallo scrupolo di restituire la temperie morale di certa provincia avvolta in un mantello di solitudine si avverte nitidamente il cipiglio con cui Fucini racconta le avventure dei suoi stralunati personaggi (…) riuscendo a far scorrere la sorgiva fluidità della sua lingua attraverso il setaccio dei suoi moduli popolari. Fucini ha poi acquistato la disinvoltura del parlato senza cedere a compiacimenti vernacolari.”[2]
Bella, a questo proposito, la definizione che di Fucini dette il Russo: “pittore dal disegno fermo ma dalla materia triste e qualche volta cruda”
Renato Fucini ebbe anche rapporti con Giacomo Puccini a cui dedicò una poesia per la prima di Madama Butterfly (1904). Gotine gialle che fu poi musicata da Renato Brogi.
Ecco il testo:
E s'addormentano nelle culle d'oro
gli angeli biondi, gli angeli di Dio.
Dormi, dormi anche tu dolce tesoro
Fa' la nanna anche tu bambino mio.
E sognano dormendo gli angiolini
sognano fiori, farfalle e mandarini.
Sogna, sogna anche tu gotine gialle.
I mandarini, i fiori e le farfalle
Puccini, a sua volta, musicò due poesie di Fucini: E l'uccellino, dedicata ad un bambino, e Avanti Urania, composta per il varo di un piroscafo. (Wikipedia)
Le Veglie di Neri
La raccolta di racconti Le veglie di Neri venne pubblicata, racconto per racconto, dal 1877 al 1881 sulla Rassegna settimanale, una rivista diretta da Sidney Sonnino. Nella raccolta Fucini intestò tutti i racconti al muratore Neri Tanfucio (anagramma del suo nome), personaggio col quale si identificava già all’epoca dei Cento Sonetti in vernacolo pisano e si orientò verso uno spiccato realismo agreste, ponendo l’accento sugli avvenimenti e sui personaggi tipici dell’ambiente campagnolo e facendo trasparire un certo pessimismo nei confronti delle vicende risorgimentali e dei loro ambiziosi programmi di riforma sociale.
Le Veglie di Neri sono composte da sedici novelle: Il matto delle giuncaie, Perla , Lucia, L’oriolo col cuculo, La fatta, La pipa di Batone, Vanno in Maremma, Primavera, Il merlo di Vestro, Tornan di Maremma, Lo spaccapietre, Fiorella, Sereno e nuvolo, Passaggio memorabile, Dolci ricordi, Scampagnata.
Scrive Fiorina Izzo:
La scrittura di Neri Tanfucio si permea di quotidianità e di semplicità delle piccole cose, del vissuto esperienziale e della conoscenza di situazioni reali, del vivere profondamente la realtà circostante. Così a poco a poco si modella il romanzo autobiografico di Neri il quale, tessendo insieme le maglie della propria vita - con sullo sfondo il paesaggio maremmano-toscano - scruta «a occhio nudo» l’anima del mondo. [3]
I sedici racconti mantengono , anche a distanza di anni, una loro vitalità, grazie all’ essenzialità del modulo narrativo e alla naturalezza del linguaggio vivo per le numerose locuzioni del più puro vernacolo toscano. Il taglio dei racconti, brevi e rapidi, risente della tendenza bozzettistica, ma la notazione precisa sa ampliarsi con efficacia al di là del semplice schizzo. Si passa dal tono tragico al doloroso, dal patetico al comico, ma sarebbe più esatto dire umoristico, con un sorriso di compassione nel sottofondo mai sotteso d’ipocrisia e sempre regolato piuttosto da un’intensa partecipazione alle sventure dei suoi personaggi, come nel caso della novella Fiorelladove l’autore racconta l’amore tra Fiorella e Pipetta, due giovani pastori, innamorati fin dalla più tenera infanzia e poi separati, quando il giovane Pipetta verrà chiamato alle armi. E questa separazione porterà alla follia Fiorella e al suicidio Pipetta. Fucini (Neri) , che in questo caso è narratore interno perché conosce i ragazzi e le loro vite, dimostra di partecipare anche emotivamente alla tragedia che si è consumata davanti ai suoi occhi e che lui non ha potuto evitare.
La trovai che piangeva; ma questa volta il suo pianto era diverso da quello passeggero che le avevo veduto versare da piccola nello scoperto della Torre. Cercai di calmarla, ma per qualche minuto non mi fu possibile. Le dissi qualche parola di conforto; ma di che dovevo io confortarla? La rimproverai dolcemente: non mi dette ascolto. Le sedei accanto e aspettai. A poco a poco parve calmarsi e io le posai dolcemente una mano sulla testa; ma la mia carezza non fece altro che farle raddoppiare i singhiozzi più disperati che mai.
«Ma che cos'hai, per l'amore del cielo, che cos'hai? Eppure tu mi conosci; tu sai tutta l'amicizia che ho per voi due, tutto il bene che vi ho sempre voluto...» Si buttò bocconi per terra, gridando:
«O Dio, o Dio! per carità ci soccorra, ci soccorra per carità, mi raccomando a lei».
«Ma che è stato? dimmi qualche cosa.»
«Me lo rubano, me lo rubano, me lo portano via!» E non disse altro.
Restò lì come tramortita a tremare e a lamentarsi.
«Me lo portano via, me lo portano via!»
Quel “me lo portano via” urlato da Fiorella, si riferisce alla chiamata alle armi di Pipetta.
E’ solo l’inizio di un dramma che si consumerà lentamente, con la progressiva ma inesorabile avanzata della follia di Fiorella, che Fucini testimonia, commovendosi e cercando comunque di offrire il suo aiuto; torna spesso a trovare la ragazza, informandosi sui suoi stati d’animo e, quando finalmente Pipetta, ormai arruolato, riesce ad avere un permesso per tornare a trovare Fiorella, la ragazza ormai impazzita, gli si scaglia contro:
Appena la ragazza ci vide da lontano, si mise a guardarci fissa fissa; poi, a un tratto, si alzò come una molla e corse in casa per dare, ci parve, l'avviso del nostro arrivo; ma ritornò fuori subito con una roncola in mano e cominciò a correrci contro e s'avventò a Pipetta urlando come una disperata: «Ammazzatelo! ammazzatelo!», ché se, per combinazione, non c'era lì Fiorancino che mi dette una mano per tenerla, gli tirava alla testa e l'ammazzava di certo, perché lui rimase lì come un masso e non si sarebbe scansato.
«Ma dunque è pazza?!»
«Pur troppo! e, dolorosamente, non più furiosa, perché, dopo quell'accesso, la sua alienazione ha preso una forma...»
E, dopo quell’incontro, Pipetta, disperato se ne andrà, ma non tornerà mai più a Firenze perché si suiciderà gettandosi nel bottaccio del molino. [4]
C’è poi, accanto ad una follia manifesta come quella di Fiorella, una sorta di “falsa follia” come quella del Matto delle giuncaie, emarginato dalla società, perché ex carcerato, nonostante avesse poi trovato un nuovo lavoro. Adesso vive nel palude ed è lì che Fucini lo incontra e , dopo avergli offerto un sigaro, i due iniziano a parlare, anzi è proprio il “Matto” che si presenta:
«Non mi pigli per un assassino, signore; non mi pigli per un òmo disonorato... Bisognerebbe saperle tutte, bisognerebbe... La faccia l'avrò brutta, ma me l'hanno fatto diventar loro... E ho voluto tanto bene a tanti! E chi chiedeva un piacere a quest'assassino, lo veniva a conoscere se dentro a queste costole c'era qualcosa... E ora mi chiamano il Matto!»
«Ah! sei il Matto delle Giuncaie?»
«Sissignore. E patisco la fame, capisce? la fame; e non ho fatto mai male a nessuno... Eh! a lui sì, glielo feci;... ma la volle, la volle... glie l'avrebbe tirata anche la Santissima Vergine.»
«Ma dunque, racconta...»
E così, il “Matto” racconta di come aveva ucciso l’uomo che gli aveva rubato, grazie all’avidità del padre di Lei, la sua fidanzata, Stella, dopo che questi l’aveva promessa a lui. Lo aveva ucciso, poi, perché era stato provocato. Dopo aver scontato la sua pena, aveva trovato lavoro come “guardia” presso un signore che lo aveva preso a benvolere e lo stimava, fino a che le male lingue avevano convinto il suo padrone a licenziarlo perché ex carcerato e lui si era ritrovato senza lavoro e senza casa.
E così continua il suo racconto:
“Ora, son nov’anni che son qui! Mi chiamano il Matto; mi rincorrono, m’urlano dietro e mi tirano le scoppiettate da lontano per farmi paura. Ma me le merito, perché dopo ammazzato lui, invece d’andare dal maresciallo a farmi pigliare, mi dovevo legare un sasso al collo e farla finita.”
«Ma se tu avessi un bisogno... nel caso d'una malattia non hai un parente?»
“Nessuno!»
«Nemmeno un amico
«Un amico sì; e che amico! Lo vòl conoscere?»
Fece un fischio, e sbucò, sguazzando nell'acqua fino alla pancia, un vecchio restone, quasi non reggendosi in gambe, il quale movendo festosamente la coda, andò con fatica a mettere le zampe davanti sul barchino del suo padrone, e guardandolo con occhi lustri, mandò con voce rauca un latrato di gioia.
Ma accanto a novelle decisamente tragiche come queste, Fucini ce ne regala anche qualcuna di stampo decisamente umoristico, come Il merlo di Vestro e Scampagnata.
Nella prima racconta di Vestro, un merciaio cattolico, che aveva allestito una cena per il signor canonico Sinigaglia; ecco come Fucini descrive la scena:
Vestro aveva perfino fatto le ballotte, ed aveva rifrustato con tanto calore la povera cantina da portare su in bottega una mezza dozzina di bottiglie di vinsanto vecchio, colle quali tanto si comunicarono i priori ei cappellani indigeni ed esotici del circondario, da preparare più che comodamente il letto alla pappatoria della mattina seguente, dovendosi festeggiare appunto il giorno dipoi, nella pievania, la festa del titolare, il beato San Remigio martire. La conversazione era stata briosa fino dal principio, ma alla quinta bottiglia vi fu un momento di vero entusiasmo a beneficio dell'illustrissimo signor Canonico. Ribevvero tutti alla sua preziosa salute, parlarono della santa causa, lessero, fra le acclamazioni, un articolo furibondo della Stella Cattolica, mangiarono un libero pensatore per uno ed empirono il pavimento di gusci di ballotte biasciate.
Vestro schizzava dalla contentezza trovandosi in mezzo ad un elemento così omogeneo ai suoi principii ultracattolici, e si fece diventare il naso gonfio e rosso come un peperone dalle gran prese di tabacco offertegli dal signor Canonico; regalo che non volle mai rifiutare, quantunque non prendesse tabacco, per non disgustare l'eminente personaggio che quella sera erasi degnato di onorare la sua povera merceria.
Insomma Vestro è un baciapile che ha coltivato una piccola passione: ha un merlo ammaestrato che si diverte a far fischiare melodie particolari (nel testo non si dice quali) che fanno però imbestialire il suo dirimpettaio Ciuciante, un liberale, mangiacristiani e anticlericale. A un certo punto il Canonico chiede:
«Ditemi, Silvestro; in che consisterebbe la bravura di questo animale?» .I priori e i cappellani esotici ed indigeni dettero, a quella domanda, in una gran risata, per la quale la dignità del Canonico restò alquanto offesa. Ma il Piovano che se ne avvide, gli si accostò e sotto voce gli dette la spiegazione di quella risata, che fu seguita subito da un'altra grossissima, alla quale anche il signor Canonico si compiacque di prender parte battendo con una mano zucca sulla bernoccoluta di Vestro, come per dire «Ah! gran cervello bizzarro c'è qui dentro! Che matto, che matto!».
«Eppoi, sa? lustrissimo; il bello si è che c'è quel calzolaro là difaccia... lo chiamano Ciuciante di soprannome... è un liberale lui!.. che quando lo sente piglia certi cappelli! perché dice che l'ho ammaestrato apposta per fargli dispetto. Ma che crede che ci si faccia poche risate?... Eh Cappellano?»
A un certo punto della cena, Vestro decide di fare esibire il merlo per dare una dimostrazione ai suoi ospiti, ma un rumore sordo proveniente da fuori fa allarmare tutti. Vestro si precipita fuori e vede che il merlo è volato via dalla gabbia che qualcuno ha rotto. Ma scoprirà, giorni dopo, che il merlo era volato in casa del Pievano che, dovendo allestire una cena per alcuni preti, lo aveva ucciso e cucinato, facendolo passare per un tordo. E da quel giorno avviene la metamorfosi di Vestro che, da baciapile ossequioso e umile, diventa anticlericale e amico di Ciuciante.
Ed ecco come Fucini conclude la novella:
Chi capitasse oggi nella merceria di Vestro troverebbe parecchi cambiamenti, come ne troverebbe anche nell'indole e nelle abitudini del cattolico merciaio. (…) Sulla mensola di legno che sosteneva il tabernacolo dell'Immacolata Concezione c'è ora un busto di Garibaldi, di gesso colorato; e i due mazzi di fiori secchi, uno di qua e uno di là, sono sostituiti da due bandierine rosse ritagliate dal baldacchino del tabernacolo. (…) Ciuciante, con tre o quattro amici suoi, viene a veglia da Vestro quando Vestro non va da lui. Stanno allegri che è un gusto, e per il 20 settembre hanno fissato una cena e un gran bandierone da mettersi fuori la mattina.
Ho scritto prima che il termine comico non mi sembra appropriato per queste novelle che sono comunque per lo più tragiche come a voler riflettere il clima evocato dalla canzone ottocentesca “Maremma amara” che risale ai primi dell’800, di autore anonimo, che ricorda le terre di Maremma come luogo oscuro e selvaggio, luogo di malaria dove neanche gli uccelli riuscivano ad uscirne indenni. E infatti nella novelle Luciasi racconta di una giovane pastora che , andando alla ricerca di una capretta smarrita, viene stuprata da Tonio un altro pastore che la attira in un tranello, imitando il belato della capretta, nelle due novelle Vanno in Maremma e Tornan di Maremmasi descrivono uomini costretti dalla miseria a scelte estreme e disperate, nella novella Lo spaccapietreun uomo è costretto ad un lavoro massacrante, per mantenere il nipotino che, dopo la morte della figlia, aveva preso con sé, aiutato dalla moglie cieca da un occhio, in Sereno e NuvoloCecco e Pierone innamorati entrambi di Chiara Stella, che ama comunque Cecco, finiscono dopo un’apparente pacificazione, per prendersi a coltellate e Pierone morirà …insomma ecco perché il termine “comico” non mi sembrava adatto; poi ci sono novelle come La fatta(escrementi animali) dove si scommette, tra cacciatori, se quella rinvenuta in un campo sia escremento di beccaccia o di pèccola. C’è uno scontro tra esperti e si scommette. Si consulta un professore di chimica e si scopre, ahimè , che erano escrementi di pollo e la novella L’oriolo col cuculodove il sor Pasquale, tutto contento per aver acquistato un pezzo di gran valore, rimarrà vittima in tutti i sensi di una superstizione legata all’orologio.
Ma, in conclusione, vorrei parlare della novella che chiude la raccolta e che ho trovato la più divertente: La scampagnata.
In questa novella si parla di un pranzo da incubo a cui Neri (Fucini), invitato dal sor Cosimo, un vecchio compagno di Università, diventato sindaco, non riuscì a sottrarsi. Arrivato a casa dell’amico e ricevuto con tutti gli onori, dopo aver discusso un po’ alla buona di letteratura e dopo essere andati alla messa, officiata dal Cappellano, fratello del sindaco, arriva finalmente il momento di andare a tavola ed ecco come Fucini ce lo racconta (è una sequenza un po’ lunga, ma ne vale la pena):
Al momento d'andare a tavola il sor Cosimo mi disse, dandomi uno strizzone: «Oggi si deve stare allegri! Bravo, bravo, bravo!». La signora Flavia mi ripeté per la sesta volta che avrei fatto penitenza, perché non avevano alterato per nulla il solito desinare delle altre domeniche. (…)
«Ecco qui», ribatté il sor Cosimo, «noi non si fa complimenti; un po' di minestra, un po' di lessuccio, du' altri gingilli come il solito, e s'è finito.» Si segnò e recitò il Benedicite . (…)
Gostino mise a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, e giù una frana di ciccia da sfamare un can da pagliaio, fatta rovinare dalla forchetta del sor Cosimo e da una gran manata del Cappellano nel gomito di Gostino.
«Non lo finisco.»
«Senza pane, permio!»
«È impossibile.»
«Dunque è segno che il pollo non gli piace!» E giù, anche una targa di manzo. E bisognò che mangiassi ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s'era a nulla! Infatti cominciò subito la succulenta dinastia degli umidi. Sette ne comparvero! Due di pollo; uno di vitella di latte; due di carne grossa; uno d'animelle, e l'ultimo di tacchino coi maccheroni... Scoppiavo!... E bisognò assaggiarli tutti!... tutti! Quello bisognò prenderlo perché era col cavol fiore, una primizia! quell'altro perché se no si sarebbe guastata la relazione; questo perché è con gli spinaci che ora sono una rarità; quest'altro perché ci ha fatto la salsa la signora Olimpia... Dio signore! non ne posso più. E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il resto non bastasse, le mosche insistenti dell'autunno mi finivano di conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù per le gote!... E il sor Cosimo, sempre più feroce, m'assaliva con una cucchiaiata d'erba perché era roba leggiera, e il prete con una stiappa di ciccia che mi buttava nel piatto da lontano; e in quel tempo Gostino badava a predicarmi di dietro che non mangiavo nulla, e la signora Flavia a lamentarsi che non mi fosse piaciuto il desinare!
«Ecco l'arrosto! ora siamo in fondo; coraggio!» Ma coll'arrosto cominciarono le bottiglie. Il prete n'agguantò per il collo una di vin santo, il sor Cosimo una d'aleatico e Gostino una di vermùtte spumante. (…)
Poi venne l'insalata coll'ova sode, poi le frutta, poi i dolci, poi altre bottiglie, eppoi... perdio! fu finita. Ma credo che anche i miei vincitori avessero poco da cantar vittoria. Era uno sbracalìo generale di calzoni, di panciotti e di fascette: sbuffate da tutte le parti e ceffi infiammati e occhi rossi, tranne la signora Olimpia, la quale, vivendo tutta di spirito, s'era mantenuta inalterata, posando sempre in attitudini soavi e mostrando qualche volta, nei momenti più serî, una gentile pietà per la mia posizione.
E i nostri discorsi durante il pranzo? Nulla! Fu una lotta sorda e continua di offerte, di repulse e di nuove offerte; di «pigli» e di «grazie»; di «lei non mangia, lei non beve», e di risa sgangherate tutte le volte che avevano inventato un nuovo tranello per farmi scoppiare.
E finalmente il nostro malcapitato autore riuscirà a liberarsi e a prendere il treno che lo riporterà in città. Ma non crediate che Fucini abbia esagerato nel descrivere quel pranzo, perché nelle famiglie di contadini benestanti di una volta, il pranzo domenicale, così come quelli di altre festività erano più o meno tutti di tal fatta.
Vorrei concludere questo viaggio intorno all’opera di Fucini con questa riflessione, sempre di Fiorina Izzo:
L’opera del Fucini è conoscenza autentica della tipicità e rusticità toscana. Profumi e sapori campestri animano le pagine, le diverse «nuances» e il gusto del dettaglio donano al racconto « un colorito mirabile di verità » (Luigi Calvelli) e il linguaggio sobrio, umoristico o ironico è profondamente morale, perché la sincerità è il segreto della sua arte. Ed è così che il Nostro offre un quadro a tutto tondo dell’umanità arcaica e campagnola, non priva di pregi e contraddizioni. Con l’ausilio del linguaggio - vernacolo (Sonetti) e letterato – si conferisce carattere di veridicità ed una forte vis comica, grottesca, caricaturale ma sempre autentica. [5]
Fucini, attraverso i suoi personaggi ci ha fatto conoscere frammenti di una società povera, classista, falsamente liberale, asservita alle leggi del più forte, della ricchezza e del clericalismo di bassa lega, superstiziosa e ignorante e lo ha fatto usando un linguaggio scabro ed essenziale, muovendosi con disinvoltura su registri tragici e umoristici, a tratti grotteschi, capaci di generare in chi legge amare riflessioni sulla realtà campagnola di una parte d’Italia degli inizi del ‘900.
E sarebbe l’ora che le sue Veglie, così come i racconti di All’aria aperta trovassero una giusta e doverosa collocazione in qualche antologia scolastica.
[1] G.A. Cibotto, intr. alle “Veglie di Neri” , Newton Compton 1978, pp.XIII,XIV,XV