"Cronache di poveri amanti" di Vasco Pratolini
di Pierantonio Pardi - domenica 02 aprile 2023 ore 08:00
Solo poche righe per la biografia di uno dei più importanti e conosciuti scrittori italiani, di cui credo molti abbiano letto e apprezzato i tantissimi romanzi. Poche righe, perché ho dedicato un ampio spazio all’analisi di uno dei suoi romanzi più famosi “Cronache di poveri amanti”, diventato poi film per la regia di Lizzani.
Molte notizie e riflessioni relative a questo autore sono state tratte dalla tesi magistrale di laurea in letteratura italiana di mia figlia Rebecca Pardi, dal titolo:
“Le notti della paura: Pratolini e Bassani nel cinema”
Vasco Pratolini nasce a Firenze il 19 ottobre 1913, da una famiglia del popolo, in quei luoghi (via de’ Magazzini, Via del Corno Quartiere di Santa Croce) che costituiranno lo sfondo di tanti suoi romanzi.
Fece svariati mestieri e, negli intervalli che gli concedeva il lavoro scriveva raccontini, ma i sacrifici, le privazioni e gli strapazzi lo condussero alla malattia e fu ricoverato nel sanatorio di Arco di Trento e poi in quello di Sondalo presso Sondrio. Nel ’38 iniziò a collaborare a “Letteratura” , la rivista diretta da Alessandro Bonsanti, dove pubblicò recensioni e un racconto “Prima vita di Sapienza”, che contiene in nuce la tematica del primo Pasolini.
Sempre nello stesso anno fondò con Alfonso Gatto il quindicinale “ Campo di Marte”.
Quando “Campo di Marte” fu soppresso, andò a Roma per impiegarsi al ministero dell’Educazione Nazionale ( ministero della Pubblica Istruzione). Partecipò in seguito alla resistenza col nome di Rodolfo Casati.
Pratolini ha vinto nel 1947 il premio “Libera Stampa” con “Cronache di poveri amanti” (il romanzo che recensisco in queste pagine) e “Il Viareggio” nel 1955 con “Metello”
Quattro film sono stati tratti dalle sue opere: “Cronache di poveri amanti “ (1954) con la regia di Lizzani, “Le ragazze di San Frediano” (1955, sempre di Lizzani), “Le ragazze di San Frediano” (1955, regia di Zurlini), “La costanza della ragione” (1964, regia di Pasquale Festa Campanile)
Vasco Pratolini morì nella sua casa romana la mattina del 12 gennaio 1991. E’ sepolto al Cimitero delle porte Sante presso la basilica di San Miniato al Monte di Firenze.
Cronache di poveri amanti
Il plot
Le vicende di cui viene fatta la cronaca riguardano gli abitanti di via del Corno, una popolosa via di Firenze dove vivono operai ed artigiani nel periodo in cui il fascismo inizia la sua ascesa.
La prima parte del romanzo è quasi completamente ambientata in via del Corno. Sullo sfondo di questa via l’autore ci racconta le vite di un gran numero di personaggi, la loro povertà, i loro amori, le loro paure, ed insieme a queste storie si intreccia la storia del fascismo e dell’antifascismo vissuto dal basso, dalla parte della povera gente.
Giulio, un ammonito uscito da poco dal carcere, accetta di nascondere presso il proprio domicilio un sacco contenente una refurtiva, ma, per timore di essere scoperto, poco dopo la affida al carbonaio Nesi. Ciò nonostante viene di nuovo arrestato. La moglie di Giulio, Liliana, viene accolta nella casa della Signora, una figura importante nel romanzo, un’ex prostituta ormai vecchia e molto ricca, una donna che per i camerati è “sacra e inviolabile” perché tassata dalla Federazione. Lei, dall’alto del suo appartamento controlla tutto ciò che avviene in via del Corno, e non perde l’occasione per approfittarne.
Il carbonaio Nesi, un uomo prepotente che pensa solo al proprio interesse, mantiene in un appartamentino lontano da occhi indiscreti e curiosi, una ragazza di via del Corno di nome Aurora, che egli ha sedotta e che da lui ha avuto un figlio. Egli viene tradito da una soffiata a causa della refurtiva che tiene in bottega, e, mentre lo stanno portando in carcere, ormai malato, viene colto da una crisi di cuore e muore.
Aurora scappa con Otello, figlio di Nesi, facendo sapere (o credere) a tutti che il bambino è il loro figlio.
Nel frattempo si sviluppano le storie d’amore di Milena e Alfredo, Bianca e Mario, Bruno e Clara, e con queste si intreccia la storia politica che in via del Corno ha come esponenti dell’antifascismo Maciste (molto convinto) e Alfredo (meno attivo) e del fascismo Osvaldo (moderato) e Carlino (fanatico) ed infine Ugo in crisi di identità politica.
La prima parte si conclude con l’arrivo di alcune lettere inviate da aurora ed Otello che preludono al ritorno dei fuggitivi.
Il ritorno di Otello ed Aurora viene accolto con gioia dalle rispettive madri, ed il loro matrimonio, celebrato dopo poco tempo, legalizza la loro unione e di conseguenza via del Corno li accoglie nella sua famiglia.
Liliana, rimasta sola, si è stabilita definitivamente nella casa della Signora che riversa su di lei tutte le attenzioni che precedentemente dedicava a Gesuina (un’orfana che alcuni anni prima aveva adottata). Questa nuova situazione turba Gesuina che si sente messa da una parte, ma in seguito ne è contenta, perché si rende conto di aver trovato una libertà che prima non conosceva.
Mario, fidanzato di Bianca, va ad abitare in via del Corno. Qui conosce Milena il cui marito, dopo un’aggressione da parte dei fascisti, è ricoverato in sanatorio in fin di vita. Tra i due nasce un’amicizia.
Osvaldo, contrario ai metodi violenti della Federazione locale, scrive una lettera di denuncia alla sede centrale. Ma la lettera viene intercettata e deve subire una dura punizione da parte di Carlino e dei suoi amici fascisti. Questo fatto lo riempie di terrore e gli fa accrescere il desiderio di dimostrare la sua fedeltà alla rivoluzione fascista.
Ugo, che da un po’ di tempo ha abbandonato la causa antifascista e si è dato ad una vita priva di ideali, quando viene a sapere che i fascisti stanno preparando in Firenze una notte di omicidi, si precipita da Maciste per informarlo, e decidere con il compagno come avvisare le persone in pericolo. I due corrono all’impazzata sul sidecar di Maciste e riescono a sventare alcune morti, ma vengono intercettati dal gruppo dei fascisti, tra i quali c’è Osvaldo. Maciste viene colpito a morte ed Ugo ferito scappa e si rifugia presso la casa della Signora. Qui viene curato da Gesuina. Tra i due si stabilisce presto un’intesa ed appena le condizioni di Ugo lo permettono e la tensione seguita alla “notte dell’Apocalisse” si allenta, si allontanano dalla casa che li accoglie per costruire insieme la loro vita.
Così termina la seconda parte del romanzo. In questa seconda parte via del Corno a poco a poco scompare, lo scenario si fa più ampio, il problema della sopravvivenza quotidiana, col procedere dei capitoli, si trasforma nel problema che sta scuotendo l’Italia sino ad arrivare alla folle e tragica “notte dell’Apocalisse” durante la quale esplode l’odio nei confronti del fascismo, di Pratolini e dei cornacchiai.
Nella terza parte il racconto ritorna in via del Corno, dove gli abitanti, dopo i fatti di sangue, sono diventati più consapevoli della realtà politica che li circonda, ne hanno capito la dimensione nazionale ed incominciano ad averne paura.
Molti indiziati per le morti della “notte dell’Apocalisse” sono stati prosciolti nella fase istruttoria del processo, altri hanno ottenuto la libertà provvisoria.
Ugo sa di essere vigilato dalla Polizia, ma non per questo rinuncia al suo lavoro per il Partito.
Giulio viene condannato a dieci anni di carcere e Liliana, rimasta sola, lascia la casa della Signora per diventare l’amante di Otello. La fuga di Liliana sconvolge la Signora che viene colta da una crisi di pazzia. Molti cornacchiai accorrono per aiutarla, ma questo fa crescere in lei odio e disprezzo nei confronti di queste persone che ritiene misere e spregevoli. Inaspettata giunge la notizia che un antico amante ha lasciato alla Signora una grossa eredità. Con questi soldi, lei decide di acquistare tutti gli immobili di via del Corno e ordina al suo amministratore di mandare lo sfratto a tutti i suoi inquilini.
Ugo viene arrestato per dei volantini che la Polizia gli trova in casa.
Alfredo si aggrava e muore. Milena, ormai libera, si innamora di Mario, mentre Bianca, sentendosi abbandonata, medita il suicidio, ma ritrova la voglia di vivere quando incontra Eugenio che ora fa il maniscalco nella bottega che era stata di Maciste.
Un’emorragia cerebrale colpisce la Signora. La follia si impadronisce definitivamente di lei, e l’amministratore, vista la situazione, decide di non mandare lo sfratto in via del Corno.
Mario viene arrestato perché ritenuto un sovversivo, ma al processo viene assolto per insufficienza di prove, mentre ad Ugo vengono dati cinque anni di carcere.
Il romanzo termina con l’arrivo di un nuovo personaggio in via del Corno: Renzo. A lui viene affidata la speranza per il futuro.
Cronache di poveri amanti
Analisi critica
A proposito di questo romanzo ha acutamente scritto Maria Corti, che può essere considerato il più emblematico del neorealismo.
Scrive M. Corti:
“ (…) Pratolini opera la scelta per “Cronache di poveri amanti” di un punto di vista della narrazione nuovo rispetto alle opere precedenti, sottilmente diaristiche; (…) egli passa dall’ autocontemplazione allo sguardo sociale, dal proprio passato ai popolani di via del Corno; il punto di vista narrativo può così farsi omologo, almeno in partenza, a quello di un autore di cronaca, anche se il romanzo naturalmente vera cronaca non è, e l’autore può uscire abbastanza spesso in frasi del genere: “ Noi pure incontreremo Gesuina; sarà quando la sua vita si mischierà a quella dei cornacchiai. La nostra cronaca è la loro storia”. L’indizio offerto da questo metalinguaggio dell’autore è abbastanza chiaro: cronaca qui significherà narrazione di più storie, cioè presenza di racconti multipli a segmentazione lineare, secondo una struttura da tradizione narrativa orale o popolare, dove cioè si presuppone una sorta di contatto, di intesa fra l’emittente (cantastorie, narratore orale per una collettività o narratore di racconti scritti di tradizione popolare) e i destinatari.”[1]
La Corti ha perfettamente intuito qual è la novità a livello narratologico di Pratolini. Il gioco continuo delle prolessi con cui anticipa le azioni dei personaggi, gli interrogativi che sottopone al lettore, amplificando la funzione fatica e , rendendolo spesso, attraverso un sistema di indizi, personaggio tra i personaggi, l’idea di aver creato un nuovo senso della collettività che si traduce in un grande romanzo polifonico, rappresentano di fatto la ricerca di una comunicazione corale.
Come ha giustamente osservato Ruggero Jacobbi:
“ Pratolini (…) scrive un libro tutto memoria, tutto affidato al musicale Io, che è “Cronaca familiare” e uno tutto “terza persona” che è “Cronache di poveri amanti”. Nell’uno avvicina Firenze a sé con un moto struggente, e nell’altro la stacca da sé, con un’operazione “epica”, usando il termine appunto nel senso drammaturgico che gli ha dato Brecht.”[2]
Tra il “Quartiere” (1944) e “Cronache di poveri amanti” (Firenze, Vallecchi, 1947, ma scritto nel 1946) c’è di mezzo un anno, ma è un anno importante: il 1945.
Come nota Francesco Paolo Memmo:
“ Fu l’anno, eccitato ed eccitante, delle speranze e delle illusioni (l’illusione che qualcosa fosse realmente mutato nel tessuto politico – culturale della nazione). Non passò invano. “E’ difficile dire “ – scrive Luzi “ se fosse più stimolante l’aprirsi ai giovani di una realtà più multiforme e drammatica di quella chiusa e convenzionale fin allora percepita o il prendere coscienza che il popolo italiano andava facendo dei suoi vecchi endemici problemi. Quel che importa è che un vento si mise a circolare in Italia, nel quale si potevano sentire mescolati una premonizione di morte e un’insorgenza di vita, il lutto e la speranza che contrassegnano i periodi originali della storia come i disastrosi assestamenti della natura”[3]
Sul terreno della letteratura, il neorealismo post bellico, si differenzia dal realismo degli anni ’30 non tanto per una questione di linguaggi diversi, quanto per una mutata consapevolezza di fronte ad una realtà che non è più quella che, ad esempio, raccontava Bernari nei “Tre operai” (1934), ma è diversa, continuamente mutevole, non più statica e opprimente come prima.
Per Pratolini il 1945 ha significato il momento in cui dall’autobiografia si passa ad un abbozzo di storiografia.
L’anello di congiunzione è dato dalla scoperta della “tipicità”.
In questo senso Pratolini non è scrittore neorealista ma realista tout – court:
“ realismo significa riconoscimento del fatto che la creazione non si fonda su un’astratta “media” come crede il naturalismo, né su un principio individuale che dissolve se stesso e svanisce nel nulla, su un’espressione esasperata di ciò che è unico e irripetibile. La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che, tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale. Il tipo diventa tipo non per il suo carattere medio e nemmeno soltanto per il suo carattere individuale, per quanto anche approfondito, bensì per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, di un periodo storico.”[4]
Vorrei soffermarmi un attimo su questa categoria del “tipico” che è uno dei tratti determinanti della elaborazione di Lukacs, volta appunto alla ricerca del “tipico” nell’arte, visto che l’influenza di Lukacs fu determinante per buona parte della critica letteraria italiana di questo periodo (marxista e non); cerchiamo allora di chiarire meglio cosa si voglia intendere con questo concetto.
Sul piano della valutazione estetica si deve tenere ancora una volta presente il principio del materialismo dialettico, che vede in ogni presa di coscienza del mondo esterno il rispecchiamento dialettico della realtà e una forma di conoscenza.
L’arte in questa concezione viene dunque ad essere la rappresentazione fedele della realtà e viene inoltre esclusa ogni altra teoria, sostenente l’indipendenza delle forme artistiche della realtà dove con realtà si deve intendere una connessione dialettica di essenza e fenomeno, entrambi prodotti dalla realtà oggettiva.
Corrado, il maniscalco (Maciste) non è che l’anticipazione, seppure con diverse varianti, di Metello, che pure è un romanzo scritto nel 1955, quindi a distanza di otto anni e ambientato in un contesto storico completamente diverso, la Firenze di fine ‘800. Ma Maciste anticipa, proprio per una sorta di paradosso retrospettivo, gli elementi del tipico che si ritroveranno in Metello.
Metello rappresenta infatti la coscienza della crisi ed è l’eroe atipico di una generazione che si stava lentamente connotando come “alternativa” alla classe egemone, ma era già portatore di elementi tipici di un’epoca, come il lento e graduale passaggio da un vago sentimento di classe alla definitiva coscienza di classe.
Metello e Maciste rispecchiano oggettivamente una realtà inquieta e contraddittoria che andava evidenziandosi con definizioni sempre più nette nella loro Firenze, quasi “microcosmo – rispecchiamento” di una realtà sociale molto più vasta calata naturalmente in un processo storico e di sviluppo di una società storicamente determinata.
La scelta della tematica e l’individuazione dell’ambiente (la Firenze popolana della fine dell’ ‘800 e dell’inizio del ‘900 in Metello e la via del Corno negli anni del fascismo) tradisce fin dall’inizio l’intenzione di Pratolini. Metello è il “tipico” di una classe in divenire, lo specchio di mille analoghe situazioni “ (…) verificabili in un movimento operaio che essendo appunto alle origini risentiva della sua origine contadina e partigianesca e che portava con sé un bagaglio inesauribile di (…) improvvisazione, senso di solidarietà, capacità di comprensione umana.”[5]
Maciste, dal canto suo, è il tipico della coscienza di classe di un microcosmo di cui egli è l’effettivo rispecchiamento, l’eroe tragico in cui confluiscono i destini multipli degli altri personaggi.
L’autentica opera d’arte deve, dunque, mirare – non si stanca di sottolineare Lukács – alla rappresentazione di ciò che è effettivamente tipico, quale mediazione dialettica dell’universale e della realtà particolare in cui il concetto si incarna.
Pratolini con “Cronache di poveri amanti”, Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli”, Jovine con “Le terre del Sacramento” e tanti altri riprendono la vecchia battaglia democratica ottocentesca contro la miseria, l’oppressione sociale, l’ingiustizia, la fame.
E, come scrive G. Barberi Squarotti:
“ Con uguale convinzione nell’efficacia, come risoluzione dei problemi, della letteratura che rivela gli inganni, si fa voce di chi soffre ed è calpestato.”[6]
Come abbiamo già detto i protagonisti di questo romanzo sono gli abitanti di via del Corno, i “cornacchiai” che erano, così come li descrive Pratolini, povera gente, buona e cattiva, semplice e corrotta; come se ne incontra ovunque.
Fa da sfondo alla vicenda, appunto, una via popolare di Firenze, via del Corno, la stessa in cui l’autore passò alcuni anni della sua giovinezza.
Attraverso la memoria il narratore che è parte integrante della storia che racconta, diventa testimone diretto degli avvenimenti.
Le vicende private dei vari personaggi si intrecciano con i drammatici eventi che segnano nel biennio 1925 – 26 la storia d’Italia: l’inasprirsi del regime fascista e la sua intolleranza a ogni forma di dissenso. La “cronaca” è riportata attraverso una precisa scelta temporale, il presente storico, che dà alla vicenda il senso dell’eternità, della continuità, inframmezzato da occasionali passati prossimi in funzione di analessi e da rari imperfetti.
Il testo è diviso in tre parti: la prima ripartita in nove capitoli, la seconda in sei e la terza in dieci.
Nella prima parte si presentano i personaggi, nella seconda le loro trasformazioni e la rottura degli equilibri e la terza infine compie, attraverso una maggiore consapevolezza, il ritorno rassegnato all’eterna armonia e inamovibilità del mondo popolare.
“Questi elementi sono presenti lungo tutto il percorso narrativo, proprio in virtù della polifonia che lo caratterizza. Di questa strada buia e sporca, via del Corno, è difficile dire quale sia la figura di maggior spicco. Ognuna può raccontare di sé una storia di dolore, sia che si perda sulle scale di un bordello, come la giovane Elisa, sia che viva appartata come la “Signora”, una vecchia e temuta donna che dal suo letto domina e controlla tutti gli avvenimenti della strada.”[7]
La “Signora” che è una ex maitresse rappresenta l’incarnazione del potere in via del Corno ed è, allo stesso tempo, una grande metafora cinematografica: è come una cinepresa che filma e registra tutto ciò che avviene intorno a lei. Alcuni critici hanno associato la sua figura a quella di Mussolini, io, ci intravedo i tratti orwelliani del “Grande fratello”.
Parallelamente alla politica, l’amore, in tutte le sue forme, gioca nel libro un ruolo fondamentale: da quello sensuale e perfino spregevole (la storia di Nesi e Aurora o la libidine saffica che la Signora sfoga con le ragazze che vivono con lei), a quello più puro tra Mario e Milena apparentemente riservati a tutt’altro destino.
Centri irradiatori di queste diverse forme d’amore sono gli Angeli custodi di via del Corno, quattro ragazze quasi coetanee. Aurora, Milena, Bianca e Clara.
Il bene e il male attraversano in modo ondivago le anime dei cornacchiai ma ad un certo punto, sotto l’urto degli eventi, come nella “notte dell’apocalisse” del 15° capitolo, ogni personaggio è spinto ad una rivelatrice scelta etica.
Le leggi eccezionali, le spedizioni punitive fasciste nel quartiere e la conseguente morte di Maciste, l’onesto fabbro Corrado, modello di coerenza per gli abitanti della via, persuadono tutti gli attori, direttamente o indirettamente, a riflettere sulla propria vita e a schierarsi rispetto al regime. Il romanzo si chiude, poi, con l’incontro tra la giovanissima Musetta e un nuovo arrivato, il giovane Renzo, che altri non è che lo stesso Pratolini nel momento in cui, ancora ragazzo, si trasferì in quell’angolo di Firenze, venendo a conoscenza delle storie degli abitanti.
E’ interessante leggere quello che scrive Pratolini sui cornacchiai:
“ Erano povera gente, buona e cattiva, semplice e corrotta; come se ne incontra dovunque. Avevano limitato il mondo a una sola strada, la loro, ed in essa trovarono ogni compimento. Chi poté salvarsi dallo sconquasso lo dové alla sua capacità d’amore. Vi furono anche delle ingiustizie: creature che pure amando disperatamente finirono dannate. Non a me dovete chiederne le ragioni. La mia fortuna è consistita nello scoprire delle testimonianze; io non ho fatto altro che trascriverle.” (in “L’Italia che scrive”)
Ma, se il punto di partenza è molto simile a quello de “Il Quartiere”, il motivo politico – documentario è però predominante: il male contro cui i cornacchiai combattono è il male storico del tempo, il Fascismo.
Nota a questo proposito Francesco Paolo Memmo:
“ Una questione di “antico sangue”, una scelta che non ammetteva riflessioni; da una parte l’offesa, la barbarie, il fascismo, dall’altra la difesa contro la barbarie, l’esigenza di salvare la dignità dell’uomo, l’antifascismo istintivo della povera gente; il fascismo era “nemico per natura oltre e prima ancora che per ideologia”[8]
Qualcuno ha criticato Pratolini per questa sorta di primato attribuito alla natura sull’ideologia, ma sarebbe stato antistorico dare a quella povera gente, in quel luogo e in quella contingenza una coscienza di classe che essa non poteva avere. Se si è comunisti lo si è con il cuore; non c’è bisogno, per essere comunisti, di aver letto Marx, almeno secondo il punto di vista di Maciste.
Il comunismo di Maciste è anzitutto una categoria morale; nel capitolo VII rimprovera Ugo per la relazione adulterina con Maria, la moglie di Beppino Carresi, ma il discorso poi sconfina anche nell’impegno politico.
Dice Maciste ad Ugo:
“ Ti cacci in un imbroglio per il piacere della spacconata. Io so che per te, Maria o un’altra donna, sarebbe lo stesso. Non è vero?”
“ In un certo senso sì” (replica Ugo, n.d.r.)
“ Ecco, vedi! Il tuo cinismo è fuori moda. Da un po’ di tempo tu ribalti. E io voglio cogliere l’occasione per dirti il mio pensiero. Ti sei messo a giocare d’azzardo, capitano delle sere in cui ti ubriachi. E per finire, e il più importante, ti mangiavi i fascisti con gli occhi ed è bastato un po’ di terremoto perché ti dimenticassi del Partito. Con gli annessi e i connessi:”[9]
Maciste è un giustiziere e un moralista, è un uomo di altri tempi e non sopporta la deriva qualunquista e debosciata in cui è caduto Ugo.
E’ questo il punto: in Maciste cuore e natura e istinto si fanno ideologia, si trasformano in ideologia nel momento dell’azione, come quando durante la “notte dell’apocalisse”, corre, in sella al suo sidecar, a salvare i suoi compagni minacciati dalla furia squadrista e muore, ed era stato spinto dall’istinto a far questo non certo dall’ideologia.
“Per i cornacchiai, Maciste è tanto l’angelo dell’Annunciazione quanto il comunismo; ed essi sono comunisti in quanto si riconoscono in Maciste, nel modello di onestà morale che egli offre con i gesti più che con le parole. E se Maciste muore, c’è Ugo che continuerà la sua lotta, c’è Alfredo che viene picchiato a sangue per essersi rifiutato di pagare la quota al Fascio, c’è Bruno che per non essersi voluto iscrivere al Partito viene licenziato dal lavoro, ci sono Mario e Milena che sono costretti a espatriare in Francia, consapevoli della necessità di resistere.”[10]
Questi e molti altri personaggi che si intrecciano in molteplici esperienze fanno delle “Cronache di poveri amanti” il romanzo più corale di Pratolini ed anche il più cinematografico.
Via del Corno è il luogo teatrale, quasi il set dove si consumano quotidiane commedie e piccole e grandi tragedie.
Basta prendere l’incipit di questo romanzo, dove, con poche pennellate, Pratolini ci introduce subito a respirare l’atmosfera della strada:
“ Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio, si è spenta la lanterna dell’Albergo Cervia. Il passaggio della vettura che riconduce i tramvieri del turno di notte ha fatto sussultare Oreste parrucchiere che dorme nella bottega di via dei Leoni, cinquanta metri da via del Corno (…) Sulla torre di Arnolfo il marzocco rivolto verso oriente garantisce il bel tempo. Nel vicolo dietro Palazzo Vecchio i gatti disfanno i fagotti dell’immondizia.”[11]
Via del Corno è lunga cinquanta metri e larga cinque; è senza marciapiedi ed è a pochi metri da Palazzo Vecchio, eppure qui ognuno è attore e spettatore a un tempo. Pratolini mette in moto il sistema dei personaggi partendo proprio dalle sveglie che suonano una dopo l’altra; questa delle sveglie che suonano è un accorgimento di stampo teatrale, è l’ “indizio fonetico” che fa agire i personaggi: Osvaldo, rappresentante di commercio, Ugo che fa il fruttivendolo, i Cecchi, il Nesi carbonaio, ricettatore, ladro e confidente della polizia, Corrado (Maciste) il maniscalco, i quattro angeli custodi.
La storia di ognuno di loro si intreccia con quelle degli altri, si fa storia di tutti ed anche il linguaggio finisce per diventare il linguaggio della coscienza collettiva; per cui la notte della spedizione punitiva diventa la notte dell’Apocalisse e il sidecar di Maciste:
“ è la stella cometa che annuncia il diluvio agli uomini di buona volontà. La guida un San Giorgio di due metri, a testa nuda, le labbra fra i denti e gli occhi fissi all’orizzonte: un centauro mitologico che indossa una giacca operaia.” [12]
C’è una dicotomia quasi sensibile nelle storie che attraversano i personaggi di via del Corno: una dicotomia tra il bene e il male. Nell’episodio di Maciste la lotta tra il bene e il male diventa lotta tra fascismo e comunismo. In questo caso il Male vince perché Maciste muore. E vincono le figure del Male, anch’esse “tipiche” di quella situazione specifica: Carlino Bencini, il fascista per antonomasia del quartiere e il Pisano, uno squadrista dell’ ultima ora, carismatico e violento.
Ma c’è anche un Male ancora più grande, quasi metafisico, che si incarna nella figura della Signora.
Così ce la presenta Pratolini:
“ Il viso, e quella sua espressione, spaventano ed affascinano. I capelli intensamente neri, lisci e luccicanti, sono divisi in due bande e raccolti a ruota sulle orecchie. Il pallore del volto è intenso: uno strato di cipria, grossa e bianca come il gesso, lo ricopre dall’attaccatura dei capelli alla gola. Le labbra, dipinte di rosso, con la stessa intensità, danno l’impressione di un restauro perfetto e macabro. E gli occhi, gonfi e ombrati dalle palpebre fino allo zigomo, ove la cipria si assottiglia e sfuma, sono due nere caverne, immense, inesplorate, nel cui fondo c’è una luce ora vivida da non sopportarne il bagliore, ora spenta da immaginarla estinta per sempre. La carne è in sfacelo. Le guance, come elastico troppo teso, sono crollate, prolungano vagamente il segno della mascella, pendule come le orecchie di un cocker.” [13]
Ma ecco che, dopo questa descrizione ancora più raccapricciante di quella con cui Igino Ugo Tarchetti aveva descritto Fosca, Pratolini connota la Signora in modo dinamico, utilizzando anafore di indubbia suggestione: “La Signora medita…”[14] – “ La Signora pensa..”[15]
Pratolini crea nel lettore, attraverso una calibrata suspense giocata su analessi e prolessi una sorta di indizi su questo personaggio fino al punto che è lui stesso, narratore a porsi una domanda che tende inevitabilmente a coinvolgere tutti: “ Non ha dunque una coscienza la Signora?”
E’ una domanda destinata a rimanere senza risposta. Di fronte al Male che è la Signora, ogni altro male è destinato a soccombere.
Ma, in realtà, se andiamo poi a vedere più da vicino le azioni della Signora esse si configurano spesso in una sorta di caricatura grottesca. Il potere di plagio che esercita su Gesuina (che poi se ne affranca) e su Aurora, è limitato nel tempo, mentre la passione per Liliana, che la porterà all’autodistruzione è anch’essa effimera.
Gesuina troverà l’amore in Ugo, Aurora si libererà definitivamente da Otello, proiezione nefasta del padre Nesi carbonaio che l’aveva stuprata da bambina e Liliana troverà proprio in Otello l’amore che cercava, dopo essersi liberata dal marito Giulio, carcerato e despota.
I poveri amanti, alla fine, troveranno proprio la loro identità seguendo unicamente il cuore e l’istinto.
Scrive a questo proposito A.A.Rosa:
“ Vasco Pratolini, infatti, pone come solido fondamento di tutta la sua opera la convinzione più volte riaffermata che l’istinto, ossia toscanamente il “cuore” ha assai più importanza di qualunque coscienza, di qualunque forma storica di consapevolezza. Questa priorità del dato umano è già un indizio di schietto populismo. Ma la forma con cui P. esprime questo atteggiamento rivela ancora di più l’origine naturalistica che sta alla base della sua visione del mondo. L’accento cade, anche quando si tratta di personaggi caratterizzati politicamente, sulla fonte materiale, addirittura fisica, corporea, di certe scelte e di certi convincimenti. Nelle “Cronache” è questa limpida definizione, che riassume in sé un intero giudizio sulla realtà umana e sociale: “ Un comunista è un uomo come tutti gli altri, con eccessi e depressioni, colpi di testa e titubanze, tanti litri di sangue nelle vene, cinque sensi, intelligenza più o meno sviluppata.”[16]
Di conseguenza, osserva A.A. Rosa, il motore della storia, la forza impetuosa della lotta operaia, non potranno essere ritrovati al di fuori di questi slanci elementari della natura, perché di questo P. è intimamente convinto e anzi ha quasi “deterministicamente” collocato la sua storia scegliendo il sottoproletariato fiorentino.
“ Il Quartiere e via del Corno sono frammenti di una realtà popolare, che per definizione si colloca ai margini del grande processo storico – sociale e ad esso si lega solo come vittima indifesa, come inerme capro espiatorio. Dentro questi confini i personaggi rappresentati finiscono per subire la propria condanna con fatalistica rassegnazione (…)”[17]
A.A.Rosa conclude la sua analisi affermando che il grande successo ottenuto da “Cronache di poveri amanti” va trovato in una effettiva rispondenza tra una concezione elementare della lotta di classe (…) e il riflesso ingenuo, sincero che se ne poteva ritrovare dentro l’opera di Pratolini.
Immedesimandosi nel “popolo minuto” P. coglieva così il nucleo di una condizione umana ancora avvolta sotto il peso della miseria e nella storia dei cornacchiai riscopriva integralmente una dimensione dell’atteggiamento democratico, puntando, però più che sull’evidenza sociologica della denuncia, sulla forza trainante dei sentimenti.
Il fatto che i lettori di quegli anni si riconoscessero in quella denuncia sta ad indicare che la tradizione del “cuore” e della “natura” non era affatto morta.
Perché è proprio l’amore il centro nevralgico di questo romanzo.
Nota a questo proposito Ruggero Jacobbi:
“ (…) un posto particolare spetta, come sempre in Pratolini, all’amore. Egli sa benissimo dove stiano di casa l’Eros puro e quello maledetto, tanto che quando Ugo e Gesuina finalmente s’accoppiano egli dice che uniscono “le loro vite”, non i loro corpi, mentre allude con pudore a un segreto “forse turpe” che lega Elsa al suo sfruttatore, o narra con colorita violenza le orge e i banchetti dei fascisti, le tristi intimità della Signora. ( il sesso senz’anima è sempre legato al Potere: tema ricorrente di Pratolini, che esploderà in modo indimenticabile nello Scialo) Ma anche qui l’intelligenza dialettica sa dove trovare il punto d’incontro tra queste due Sostanze altrimenti manichee; come nello stupendo episodio di Aurora che prima riceve il sordido amante Nesi e poi allatta il bambino “con lo stesso seno di prima”[18]
Cronache di poveri amanti è il romanzo che ha imposto nel mondo il nome di Pratolini come quello di uno dei narratori più vivi e umanamente più ricchi del nostro tempo.
[1] M. CORTI, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, pp. 58 - 59
[2] R. JACOBBI, intr. a Cronache di poveri amanti , Mondadori, 2004, pg X
[3] FRANCESCO PAOLO MEMMO, Pratolini, Il Castoro, 1977, pp. 59 - 60
[4] G.LUKACS, Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1950, p. 17
[5] C. SALINARI, Preludio e fine del realismo, Napoli, Morano, 1967, pg. 116
[6] G. BARBERI SQUAROTTI , La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1968, pg. 113
[7] DANIELA CASTIGLIA, Vasco Pratolini in “ Storia della letteratura italiana” , Garzanti 2001, pg. 676
[8] F.P. MEMMO , op. cit, p 68
[9] V.PRATOLINI, Cronache di poveri amanti, Mondadori, 2001, pg. 118
[10] F.P.MEMMO, op. cit, pp. 68 - 69
[11] V. PRATOLINI , Metello, op. cit. pg 7
[12] V. PRATOLINI , Cronache di poveri amanti, pg. 265
[13] V .PRATOLINI, op. cit, pg. 34
[14] V. PRATOLINI , op. cit, pg 34
[15] V. PRATOLINI , op. cit. pg 35
[16] A.A.ROSA, Scrittori e popolo, Savelli, Roma, 1979, pp. 175 - 176
[17] A.A.ROSA , op. cit. pg. 178
[18] R. JACOBBI , cit. pp. XV - XVI
Pierantonio Pardi