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Attualità domenica 26 settembre 2021 ore 07:30

​La città vecchia

Su #tuttoPIOMBINO di QUInews Valdicornia "La città vecchia" di Gordiano Lupi. Foto di Riccardo Marchionni



PIOMBINO — Nei quartieri dove il sole del buon Dio 
non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente
d’altri paraggi…

La mia città vecchia non è quella di Fabrizio De Andrè anche se in fondo la ricorda. È la città vecchia dei primi anni Sessanta, la periferia industriale d’un approdo marino, un porto dall’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori, inconsapevole del suo mare, delle sue spiagge, protesa soltanto a seguire una vocazione siderurgica. La mia città vecchia ricorda i quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino, a stramaledir le donne, il tempo e il governo. Sono i pensionati di piazza Dante che passano il tempo ricordando il passato, mio nonno che beve un gotto di vino e mangia una granfia di polpo dal venditore ambulante all’angolo del Bar Nedo, locale scomparso, un pezzo di storia che se n’è andato per lasciare il posto al progresso. Il Bar Nedo, gloriosa sede dell’Inter Club, dal quale partire nelle mattine d’inverno alla volta di Firenze o Roma, per vedere le partite della squadra del cuore, naturalmente in treno, ché l’auto mica ce l’avevamo, il boom doveva ancora arrivare. E poi mio padre era ferroviere, guadagnava poco, il suo unico privilegio era viaggiare gratis in treno, quel che avevamo lo dovevamo sfruttare. Il Bar Nedo aveva persino un squadra di calcio che partecipava ai tornei estivi organizzati allo Stadio Magona, campionati aziendali, tornei dei bar, roba da civiltà paleoindustriale, dei tempi che vedevi le partite solo il mercoledì, quando c’erano le coppe, e la domenica sera, ma registrate; tempi che il pomeriggio festivo lo passavi ad ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto, ti facevano compagnia la voce roca di Sandro Ciotti e il timbro squillante di Enrico Ameri. Era prima dei telefonini e delle pay-tv, del calcio che ti piove in casa a ogni istante del giorno, un tempo che è esistito, pure se a molti può sembrare strano, quando la televisione era in bianco e nero, soltanto due canali che cominciavano a trasmettere alle cinque del pomeriggio e finivano a mezzanotte.

La mia città vecchia è via Gaeta, piccola strada del centro dove passano poche auto, di tanto in tanto qualche Seicento familiare, poche Cinquecento, biciclette, Vespe, il barroccio di Pino il cenciaio a raccattare stracci e cartone, ma anche il materassaio a rifare imbottiture di poveri letti. Una strada dove i bimbi giocano tutto il giorno senza temere pericoli: buchette, biglie di vetro, tappi di bottiglia, palline con immagini di ciclisti, calcio, nascondino, campana, saltando tra quadrati informi disegnati col gesso. Via Gaeta cominciava da via Pisacane e finiva in corso Italia, confinava con le Acciaierie che un tempo si chiamavano Italsider. Mio nonno non ha mai smesso di chiamarle così, è morto convinto che fossero la stessa industria dove era venuto a lavorare scendendo dai monti dell’Amiata, dopo aver combattuto la prima guerra mondiale, tornato a casa vivo per miracolo dopo lunga prigionia e tante avventure.

In via Gaeta potevi veder passare Don Claudio, prete operaio del Sacro Cuore che si avventurava nella bolgia infernale popolata da comunisti, poveri miscredenti tra i quali c’eravamo anche noi. Cercava di convincerti ad andare a messa o a iscriverti a dottrina, con la scusa della squadra di calcio, del torneo di biliardino, della partita a ping-pong, del film con Gianni e Pinotto nella sala parrocchiale, ma difficilmente t’incastrava. Ricordo Don Claudio e le interrogazioni di latino improvvisate per strada, quando chiedeva il genitivo di unusquisque, non so neppure se l’ho scritto bene, ma erano altri tempi, anni Settanta, io più grandicello, lui invecchiato, stanco di rincorrere comunisti per portarli a messa, sembrava rassegnato. Pure io mi sono arreso, caro Don Claudio, ho passato comunione e cresima per sposarmi, avrei fatto meglio a darti ascolto, avresti avuto la soddisfazione d’aver convertito un figlio di comunisti. Ora non dico più d’esser comunista, ci mancherebbe altro dopo aver visto cos’hanno fatto i comunisti a Cuba, ma resto miscredente, proprio come mio padre, morto leggendo Bertrand Russell. Fedele al mio non poter credere nel trascendente, a un malinteso materialismo dialettico, a quel che resta del sogno d’una cosa.

La mia città vecchia ricorda l’umanità di Pasolini, le borgate, i quartieri popolati da operai convinti che il futuro dei loro figli sarà migliore, mentre si lasciano scandire la vita dal sibilare acuto delle sirene, tre volte al giorno, una per ogni fine turno. Via Gaeta era un brulicare di attività, adesso scomparse, un falegname, un fabbro, un carrozziere, un deposito di acque minerali, vera manna dal cielo perché ci potevi trovare tappi colorati d’ogni tipo, buoni per giocare per strada in mancanza di biglie. Via Gaeta si svegliava alle cinque del mattino con i rumori delle botteghe artigiane, gli operai che andavano a farsi inghiottire dalle fauci d’un’immensa acciaieria, un poco più tardi impiegati e mezze maniche sfrecciavano in bicicletta, bambini andavano a scuola, stringendo forte le mani delle madri, si fermavano al negozio Coop di corso Italia, compravano schiacciate e bocche di leone. Un piccolo mondo antico ormai perduto: la tabaccheria all’angolo con via Antonio da Piombino, l’edicola dal nome comunista con il padrone dal volto rotondo e lunare, la trattoria da Alberta dove potevi mangiare con poche lire e bere vino rosso da fiaschi impagliati, il Bar Imperia davanti al muro dell’acciaieria che copriva il mare. E su tutto lei, l’immane distesa di ferro e lamiere, la rumorosa compagna della nostra vita che accompagnava risvegli e notti inquiete passate a pensare al futuro, ché un bambino non ricorda il passato, pensa al domani, desidera che giunga in fretta, per vedere cosa l’attende. Non può sapere che sarebbe meglio fermare gli attimi prima che diventino tempo perduto, giocare con gli istanti e godere il profumo della primavera. Prima che sia troppo tardi.

Gordiano Lupi
© Riproduzione riservata


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