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Attualità domenica 18 dicembre 2022 ore 08:00

Sindacato, operai e Prima Guerra Mondiale

Su #tuttoPIOMBINO di QUInews Valdicornia, “Il sindacato e gli operai piombinesi durante la Prima Guerra Mondiale (1915 – 1918)” di Gordiano Lupi



PIOMBINO — In Italia la guerra provoca un profondo cambiamento nella classe operaia. Prima di tutto l’assunzione massiccia di donne e ragazzi (per ovvi motivi bellici), quindi di mano d’opera d’estrazione contadina. Inoltre si introducono metodi scientifici di organizzazione del lavoro e l’operaio qualificato perde il ruolo di avanguardia sindacale, a favore delle donne e dei ragazzi, meno vulnerabili al ricatto della sospensione e dell’esonero dal lavoro. Le rivendicazioni portate avanti in questo periodo storico sono di carattere egualitario. Piombino è un caso abbastanza atipico. Siamo di fronte a un piccolo centro retto da un’amministrazione socialista, che dipende completamente dall’industria siderurgica, anche se ha alle spalle una vasta area agricola economicamente attiva (la Val di Cornia).

A Piombino il sindacato è avanti, perché il problema dell’operaio provetto espulso dalla fabbrica l’ha già dovuto affrontare, così come il ricorso a mano d’opera campagnola è un fatto assodato e ricorrente. La popolazione piombinese aumenta durante la guerra (21.000 nel 1913 / 28.000 nel 1918) per via delle correnti migratorie dai paesi della provincia, quindi aumenta la popolazione operaia. Un grande incremento di mano d’opera si registra negli Altiforni (3.600 operai nel 2018, in Magona solo 1.200), perché si punta alla concentrazione operaia nei cantieri più produttivi. In Magona, per tradizione, la presenza femminile è sempre stata forte (sceglitura e lavatura della latta sono ritenuti lavori femminili), mentre agli Altiforni, per tipologia lavorativa, donne e ragazzi sono sempre stati impiegati poco.

La guerra non cambia molto le cose, perché solo nella fabbricazione di tondi per proiettili e in poche altre lavorazioni trovano posto certe categorie di lavoratori. A Piombino donne e fanciulli impiegati nelle industrie restano una minoranza, poco più di 400 unità su 5.000 operai, mentre nel resto d’Italia queste categorie registrano un incremento del 6% a livello occupazionale. Nelle industrie locali si riassorbe gran parte della disoccupazione verificatasi nel 1914, molti operai licenziati rientrano a lavoro, mentre i nuovi assunti provengono da un’ondata migratoria dalla campagna e dai paesi limitrofi. Le industrie piombinesi lavorano a pieno ritmo per la produzione bellica (fino alla metà del 1917), sia la Magona (mette in marcia il quinto forno Martin) che gli Altiforni (fabbricano tondi per proiettili), riducendo la produzione di rotaie e la lavorazione di tutto quel che non è utile per la guerra. Tra l’altro manca il carbone, in cambio si utilizza il gas estratto dalla lignite di Ribolla convogliato in grandi gasogeni, oltre a impiantare un’acciaieria elettrica alimentata con l’energia naturale di Larderello. Un cantiere navale viene dedicato alla costruzione di piroscafi per la marina mercantile, mentre a Portoferraio si produce acciaio con i vecchi convertitori Bessemer e le miniere elbaneforniscono il minerale utile per la produzione. 

Il massimo sforzo produttivo finalizzato alla guerra va dal 1915 al 1917, dopo comincia un periodo di crisi produttiva, sia per insufficienza di mano d’opera che per mancanza di rottame di ferro e di carbone. La produzione viene aumentata non tramite razionalizzazione dei processi produttivi, ma intensificando la fatica, riducendo pause e accelerando ritmi di lavoro. La riduzione del prezzo sulle tariffe della mano d’opera aumenta il ricorso al cottimo, che diventa una necessità se si vuole avere una paga che garantisca almeno la sussistenza. In definitiva si lavora di più per lo stesso salario. Le paghe vengono ridotte ancora alla fine della guerra, perché calano le esigenze produttive, che portano a un appiattimento retributivo. La gerarchia della fabbrica vede un’uniformità culturale quasi totale, con poche eccezioni rappresentate da macchinisti e meccanici, pagati a giornata, operai esperti e preparati, difficilmente sostituibili, che costituiscono un gruppo omogeneo. Un meccanico o un macchinista si licenziano con meno facilità perché non è facile trovare chi sa fare bene un lavoro di manutenzione che garantisca un corretto funzionamento dell’intera fabbrica. Queste due categorie rappresentano la punta d’attacco dell’avanguardia operaia, da loro partono le rivendicazioni sociali, da questi operai privilegiati e insostituibili risorge l’organizzazione sindacale.

La crisi produttiva va di pari passo con l’inflazione che porta nuove rivendicazioni salariali dovute alla perdita del potere d’acquisto. Pure nel periodo bellico gli operai di Piombino non mancano di far sentire la loro voce, sia per motivi di salario che per le condizioni di vita in fabbrica; simili proteste avvengono alle miniere di Capoliveri (Calamita) contro il caro viveri.

La vera e propria riorganizzazione sindacale, al di là di singoli episodi, avviene dopo la metà del 1917, quando la lotta per il salario porta qualche successo da pare della lega dei meccanici: viene riconosciuta l’indennità caro viveri e la computazione dei festivi come straordinari. Le leghe dei meccanici e dei manutentori - organizzati dai socialisti e non dai sindacalisti rivoluzionari - trovano posto nella rinata Camera del Lavoro e ottengono risultati sia negli Altiforni che in Magona. In ogni caso sono vittorie che riguardano tutta la classe operaia, non una singola corporazione, perché l’unità sindacale si realizza sotto l’egida di una lotta alle condizioni disumane di lavoro (orario e ambiente) e per un salario equo. Alla fine della guerra il prezzo dei viveri aumenta del 90%, mentre i salari soltanto del 12%, questa sperequazione è la base da cui parte la lotta sindacale.

Il Partito Socialista piombinese si rinnova, emergono quadri legati alla fabbrica (Torquato Baglioni, Ruggero Rebecchi, Emilio Zannerini), uomini di cultura di sinistra (il professor Ezio Bartalini), che credono alla capacità rivoluzionaria delle masse. Il Partito Socialista conquista posizioni nelle direzioni sindacali, all’interno delle fabbriche e in campagna. Il 21 aprile 1917 rinasce Il Martello, giornale progressista che tende a unire gli operai sotto il segno della Camera del Lavoro, che siano anarchici come socialisti, aprendo persino ai repubblicani. Le richieste sindacali nel 1918 si fanno più pressanti, la crisi economica attanaglia i lavoratori, diventano una priorità le richieste di aumenti salariali, un’indennità per il caro viveri, dei turni meno massacranti, un salario minimo garantito e una miglior retribuzione dello straordinario. I problemi sono identici nelle miniere elbane, dove si chiedono un miglioramento retributivo e condizioni lavorative più dignitose.

Nel dopoguerra il movimento sindacale si avvia a una scissione inevitabile, tra socialisti e anarchici, due anime troppo diverse per poter convivere in un solo apparato organizzativo. I socialisti costituiscono l’anima della FIOM, che punta a salvare la struttura differenziata della classe metallurgica oltre a lottare per i minimi di salario e per l’indennità caro viveri. Il socialista Bruno Buozzi è un nome importante di questo periodo, è il sindacalista che strappa alla Magona un aumento nominale di tutte le paghe e dei cottimi e che discute lo stesso trattamento anche con gli Altiforni. La maggior parte degli operai della Magona, che provengono dal vecchio Sindacato Latta, aderisce alla FIOM, che punta alla collaborazione (nella lotta) con aziende e governo, per ottenere miglioramenti retributivi e sindacali. Il Sindacalismo Rivoluzionario Anarchico, invece, punta alla sovversione dell’ordine costituito e alla lotta del proletariato senza possibilità di trattativa. Il Partito Socialista, intanto, prende forza anche nelle campagne, soprattutto tra i braccianti e i salariati, organizzati da uomini come Quiriconi, Niccolini e Cipriani, sostenuti da un giornale venturinese come La Rivendicazione, che porta avanti lotte e richieste degli operai agricoli. Si forma così la Lega Contadini Venturina e dintorni che aderisce alla Camera del Lavoro e comincia a collaborare a un progetto unitario di rivendicazioni economiche e sociali tra campagna e industria.

La fine della guerra presenta una realtà organizzativa articolata. Alla Magona prende il via l’esperienza di una sorta di sindacato autonomo, rinato sulle ceneri del vecchio Sindacato Latta. Il sindacato punta alla richiesta di un salario minimo e alla difesa dei salari bassi, i più provati dalla guerra. Il Partito Socialista conquista un forte nucleo di operai delle fabbriche e un combattivo movimento contadino. Piombino diventa un punto di riferimento della lotta operaia, sia per merito dei sindacalisti anarchici che dei socialisti. Elba, Colline Metallifere, Val di Cornia e Val di Cecina guardano con interesse a quel che accade nelle industrie piombinesi. Alcuni sperano senza mezzi termini nella rivoluzione del proletariato, come in Unione Sovietica, altri sono meno radicali. In ogni caso soffia il vento del ribellismo, come ha scritto uno storico vero (Ivan Tognarini) un po’ di tempo fa. Non porterà cose buone, purtroppo.

Gordiano Lupi
© Riproduzione riservata


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