Plasticamente
di Libero Venturi - domenica 24 febbraio 2019 ore 12:05
L’Unione Europea ha deciso di ridurre la produzione e il consumo delle plastiche, colpevoli di invadere la nostra vita, i fiumi e i mari. E, quel che noi umani temiamo ancora di più, anche il nostro organismo, che, attraverso la catena alimentare, veicola e assorbe le micro plastiche che si disperdono in natura. Come, si dice, per le polveri sottili.
Intendiamoci subito per non dar corso ad equivoci: personalmente, per quel che può valere, sono d’accordo. Così l’ho detto. Ma non senza se e senza ma. Anche questo lo voglio dire subito. E se non è popolare e politicamente corretto, non me ne importa nulla. È un mio libero diritto affermarlo, non commetterò certo reato di apologia della plastica. Che non è previsto. E del resto i reati apologetici in Italia non sono perseguiti, per cose ben peggiori e invece previste. Né ho reconditi interessi, ma solo l’innato e coltivato principio di pensarla a modo mio. Un’irriducibile abitudine.
I se e i ma fanno parte della vita. Confondere la ferma dignità di principi e valori, con la rigida e assoluta verità è un grave fraintendimento che ci evita i ragionevoli e relativi progressi del dubbio e della critica. In questo caso le mie parziali obiezioni riguardano soprattutto il fatto che non mi piace che sia tutta la plastica ad essere condannata con marchio d’infamia e processo sommario dalla concezione e dal furore popolare, specialmente dei giovani. Ciò riguarda anche altre conquiste della scienza, della tecnologia e del progresso che in epoca di crisi vengono guardate spesso e volentieri con sospetto oscurantista.
Innanzitutto perché la plastica ha una storia importante e forse insostituibile nella storia dell’umanità, nel suo presente e nel suo futuro. Nell’800 la celluloide e la bachelite, la prima plastica sintetica indurente. Le palle del biliardo prima le facevano con l’avorio delle zanne degli elefanti. Nel 900, i derivati del petrolio, il 6% della produzione totale di petrolio serve alla produzione di plastiche: ad esempio il plexiglass, il polietilene, il nylon e il polipropilene isotattico il “moplen” per i contenitori, per cui Giulio Natta nel 1963 ricevette il Nobel. “E, signora, badi ben, che sia fatto di Moplen”, diceva un vecchio Carosello con Gino Bramieri. Le lenti a contatto sono di plastica, come gran parte degli automezzi e degli oggetti che fanno parte della nostra vita. Il che non significa che dobbiamo abusarne o che non dobbiamo limitarne l’uso. Piuttosto dobbiamo cercare altre vie per produrla e a costi accettabili, superata ed esaurita l’era del petrolio a basso costo, oltretutto foriera di conflitti e squilibri ambientali ed essendo altresì il petrolio dato in quantità finita. Però non è la plastica in sé ad essere responsabile del gravissimo, intollerabile inquinamento del mare, della terra e dell’aria, bensì l’uso che ne fanno gli uomini. L’inosservanza delle più semplici norme della raccolta differenziata, l’inciviltà e, purtroppo, l’arretratezza. E infine perché, oltretutto, vietati sono solamente alcuni articoli di plastica monouso, cioè usa e getta. Per altri prodotti di plastica sono disposte diverse limitazioni e norme. Vediamo nel dettaglio cosa prevede la direttiva europea.
I bastoncini cotonati, quelli per gli orecchi, i bastoncini per i palloncini, gli agitatori per i cocktail, piatti e posate di plastica sono messi al bando.
Per i contenitori di alimenti e le tazze per bevande vanno ridotti i consumi e va applicata la “responsabilità estesa del produttore” che deve, cioè, contribuire al costo o all’organizzazione dello smaltimento di tali prodotti, una volta divenuti rifiuti.
Per i palloncini vanno adottati “requisiti di etichettatura” cioè si deve sapere di che sono fatti e come vanno correttamente smaltiti. E va prevista anche per questi la “responsabilità estesa del produttore” che si applica pure per i pacchetti e gli involucri di plastica e per i filtri per i prodotti del tabacco, i filtri delle sigarette, insomma.
I contenitori e le bottiglie per bevande devono avere “requisiti di eco design”: devono cioè poter essere facilmente riciclabili e rispondere ai requisiti dell’economia circolare per la loro più agile riproduzione. Ad esempio i tappi devono essere di materiale coerente e non staccabili dal contenitore. Per le bottiglie di plastica è previsto inoltre un obbiettivo di raccolta differenziata del 90% al 2025.
Per le salviettine umidificate, che contengono plastica, valgono sia i “requisiti di etichettatura” che la “responsabilità estesa del produttore”. Per gli assorbenti igienici solo i “requisiti di etichettatura”.
Le borse di plastica leggera e gli attrezzi da pesca sono sottoposti solo alla “responsabilità estesa del produttore”. Notare che per i bicchieri di plastica invece non è stata prevista alcuna limitazione.
Ecco questi sono i divieti e i limiti previsti dal Parlamento Europeo che gli Stati nazionali dovranno adottare e fare propri. La direttiva, proposta dalla Commissione ambiente Europea, è passata con 571 voti favorevoli, 53 contrari e 34 astenuti e partirà dal 2021. Gli Stati membri dovrebbero anche elaborare piani nazionali per promuovere prodotti adatti ad uso multiplo, nonché sostenere il riutilizzo e il riciclo. Gli articoli di plastica oggetto delle limitazioni secondo alcuni costituiscono il 49% dei rifiuti marini, secondo altri l’80% circa. Ma è comunque un dato impressionante.
Tuttavia le campane suonano per ognuno di noi e vanno sentite tutte. Secondo “Pro.mo”, il gruppo di produttori italiani di Unionplast, la Federazione gomma/plastica di Confindustria, fra i primi in Europa anche a livello di export delle stoviglie monouso, queste sono praticamente insostituibili per eventi pubblici e familiari, battesimi, cresime, comunioni ed altre emergenze e nella grande ristorazione collettiva. Sono dunque contrari al provvedimento: “la plastica è impareggiabile per prezzo, praticità, igiene, sicurezza per il consumatore e riciclabilità”. Il “marine litter”, l’inquinamento marino da rifiuti, al 95% è portato dai grandi fiumi asiatici e africani. In Europa la quantità di plastica per le stoviglie monouso è meno del 3% di quella usata per tutto il packaging asiatico. Magari bisogna obiettare a questa osservazione che anche l’Europa e perfino l’Italia fanno parte del mondo e sono chiamate a fare la loro parte. Appunto. Certo è fondamentale che, sia in Europa che in Italia, si prevedano incentivi alle aziende perché possano riconvertirsi nella produzione di articoli biodegradabili, evitando il danno ambientale e anche il pericolo della chiusura delle imprese e la disoccupazione. E non è una questione da affrontare da anime belle e a cuor leggero.
Altra obiezione di “Pro.mo” è che, in sostanza, non esistono plastiche buone o cattive, ma comportamenti buoni o cattivi degli uomini. “La dispersione dei rifiuti è soprattutto un problema di scarso senso civico e va affrontato educando i cittadini e migliorando i sistemi di raccolta“. La raccolta differenziata e il riciclo della plastica sono il motore dell’economia circolare e il rimedio ambientale più efficace. E questo, ribadisco, è senz’altro vero.
Con delle contro osservazioni. In Italia il riciclo dei rifiuti è promosso a livello pubblico dal Conai, Consorzio Nazionale Imballaggi. Un sistema nato quasi venti anni fa, che magari risente anche dei suoi anni, ma che molti ci invidiano e che ha consentito al nostro Paese di avere buoni e ottimi risultati nel campo della raccolta differenziata e del riciclo. Dunque in Italia, non per tutto, ma per la plastica sì, nel sistema pubblico che si basa sui Comuni, si differenziano e si riciclano non tanto i materiali, quanto gli imballaggi. Funziona così: i produttori di imballaggi pagano il Cac, Contributo Ambientale Conai -il famoso contributo del Cac- con cui il Conai si impegna a riciclare i rifiuti sul mercato, compensando i Comuni per il servizio di raccolta differenziato, secondo gli obiettivi previsti dalla legislazione italiana ed Europea. Questo tipo di organizzazione ha conseguito successi, ma ha registrato anche degli anacronismi, proprio nel settore della plastica. Fino a pochissimi anni fa i piatti e i bicchieri di plastica andavano gettati nell’indifferenziato perché, pur essendo di materiale plastico riciclabile, come pure i catini di plastica ad esempio, non erano considerati imballaggi. E, in effetti non lo sono. Solo ultimamente, raccogliendo il grido di dolore di utenti, ambientalisti e Comuni, tali rifiuti si sono potuti conferire nella raccolta differenziata, nella fattispecie chiamata, con pessima definizione, “multimateriale”. Ma, ad esempio, ancora oggi le posate di plastica sono considerate rifiuto indifferenziato! Perché, certo, non sono imballaggi e non sono sottoposti al pagamento del Cac. È stupido, ma è così. Ciò fa parte dei tanti misteri irrisolti del nostro Paese.
Altro anacronismo è dato dalla raccolta differenziata delle plastiche meno nobili, di minor qualità delle bottiglie o dei flaconi di plastica, il cosiddetto “Plasmix”, costituito cioè da polimeri differenti tra loro. Gran parte di esso viene indirizzato ai termovalorizzatori per il recupero energetico considerato dal “Corepla” il ramo del Conai afferente le plastiche, più redditizio o meno costoso del suo riciclo come materia, che pure sarebbe il principio per cui il Conai è sorto. Anche in Germania, paese avanzato nel campo del riutilizzo dei rifiuti che ha azzerato le discariche, fanno così e un 30% circa dei rifiuti va a recupero energetico. La valorizzazione energetica dei rifiuti viene in scala gerarchica dopo il riuso e il recupero di materia, ma è prevista, ancorché regolata, dalla normativa europea. Poi si può discutere sul suo impatto, su quello dei termovalorizzatori, anche se ciò andrebbe fatto con cognizione di causa, senza enfasi superficiali, ma nemmeno oscurantismi. Però i tedeschi quel tipo di plastica meno nobile che termovalorizzano non lo differenziano, ma lo indirizzano direttamente nei rifiuti indifferenziati. Poi hanno il sistema dei resi delle bottiglie di vetro. Comunque se sbagliano, almeno sono coerenti. Forse più di noi che, tuttavia, non differenziano né ricicliamo tanto meno di loro ad oggi. C’è solo, semmai, cosa non certo trascurabile, un problema di costi da valutare.
La Revet, azienda nostrana e toscana, ad esempio sta riciclando il Plasmix come materia e costituisce un esempio positivo per l’Italia e l’Europa. Ciò andrebbe valorizzato e incentivato di più. Perché spesso, paradossalmente, specie se il prezzo del petrolio si abbassa -né dobbiamo augurarci che si alzi- costano meno i prodotti di plastica vergine di quelli riciclati, perché sottoposti a maggiori processi di raffinazione. Occorrono incentivi per sostenerne il mercato, affinché l’economia circolare sia anche economica, oltre che un vantaggio per la natura.
Per questi motivi in Italia i dati della raccolta differenziata della plastica sono alti, ma il loro effettivo riciclo è più ridotto. Chi dice di un terzo, chi di più. Ciò comunque non deve autorizzare o giustificare cattivi comportamenti. Bisogna invece vigilare e sostenere il conseguimento degli obbiettivi di riciclo che sono importanti e decisivi sia per l’ambiente, che a livello dell’economia e del lavoro che ne può derivare.
Un’attenzione particolare meritano le cosiddette oxo-plastiche e bio-plastiche. Le oxo-plastiche definite oxo-degradabili sono plastiche convenzionali additivate con sostanze che le rendono subito frammentabili in piccolissimi pezzi sotto l’azione della luce e del calore. Sono sembrate una buona soluzione, almeno dal punto di vista della riduzione dei rifiuti, però le particelle residue di queste plastiche hanno una mineralizzazione molto lenta, oltre a contenere cobalto e manganese, componenti forse nocivi per l’ambiente e l’uomo. E sono proprio le microplastiche le più inquinanti per il Pianeta. È stato proposto di definire questi materiali, vietati ad esempio in Francia, come “oxo-frammentabili, oppure “termo o foto-frammentabili”, evitando la parola “degradabili” che trarrebbe in inganno.
Le bio-plastiche invece sono quelle derivate non dal petrolio, ma da materiali biologici: mais, frumento ad esempio. La Novamont, un’industria italiana di eccellenza in campo internazionale, ha brevettato il “mater-bi”: buste e materiale plastico biodegradabile prodotto dal mais. In Italia le buste bio per la spesa sono state rese obbligatorie per legge. Oltre che biodegradabili bisogna però che siano anche “compostabili”, devono cioè degradarsi in tempi brevi ed adeguati alla loro trasformazione, secondo il ciclo dell’umido, per divenire compost, un ammendante agricolo, e/o energia. E, come prodotto, devono avere anche caratteristiche di resistenza per contenere il carico della spesa. Hanno ovviamente un costo. Per la produzione di plastica dagli scarti dell’agricoltura ovviamente, niente da eccepire. Anzi. Si può discutere invece della opportunità della messa a coltura dei suoli non per produrre alimenti, in un mondo in cui la fame costituisce ancora un grave problema, ma plastiche. E lo stesso dicasi per il bio-fuel.
Alla BioOn, un’azienda italiana, stanno lavorando intorno ad una molecola descritta dal biologo francese Maurice Lemoigne nel 1926: il PHA. Una plastica prodotta dai batteri anziché dal petrolio, come è stato per il polipropilene isotattico di Giulio Natta. Il nuovo polimero è prodotto con gli scarti della lavorazione dello zucchero: il melasso che oggi bisogna spendere per smaltite e che invece può diventare materia prima-seconda per la plastica bio. Il nuovo polimero si chiama MinervPHA, da Minerva, dea della saggezza. I suoi granuli sono biodegradabili in dieci giorni, senza residui, in terra, acqua dolce e in mare. Non si tratta della plastica per i sacchetti della spesa, ma di quella malleabile e dura di cui sono fatti tanti oggetti della vita quotidiana. Secondo i ricercatori, oltretutto, le molecole di questa plastica bio, sciolte nei mari potenzieranno i batteri marini che degradano i rifiuti plastici accumulati negli oceani. È dunque possibile una plastica pulita? La soluzione sta nella ricerca e l’Italia è all’avanguardia.
La scelta delle buste di plastica bio è valida per l’ambiente perché impedisce alle buste di plastica convenzionale, non correttamente conferite come rifiuto, di danneggiare l’’eco sistema, oltretutto per un periodo lunghissimo. Non a caso su di esse, in diversi paesi europei, è stata applicata un’ecotassa. L’adozione delle buste bio comporta ovviamente la necessità di una maggiore attenzione per quanto riguarda le politiche di conferimento: se gettate nell’umido, dove dovrebbero andare, occorre che siano assolutamente compostabili. Se gettate erroneamente nella plastica, nel cosiddetto multimateriale, nuocciono al riciclo e alla riproduzione dei rifiuti plastici. Gettarle tra i rifiuti indifferenziati è un errore, ma almeno si decomporranno in tempi brevi.
Recentemente sono stati individuati organismi che si cibano della plastica, la materia però è da approfondire. Tutto ciò a dimostrazione che, come si dice, non esistono pasti gratis o, meglio anche in questo caso, soluzioni semplici a problemi complessi.
Tante cose, ancora più della plastica, sono dannose su questa Terra. Pensiamo al global worming e ai mutamenti climatici. Pensiamo alle armi, ad esempio. Per quelle nucleari, dopo Hiroshima e Nagasaki, durante e dopo la Guerra Fredda, è stata avviata una politica di contenimento, di riduzione, di divieto e di disarmo. Ma mica tanto. E, per quanto riguarda le armi convenzionali, si dirà che servono a scopo di difesa dei confini nazionali, specie in tempi di sovranismo e rinnovato nazionalismo. Si ribadirà che è piuttosto l’uso che se ne fa che è sbagliato. E infatti in gran parte del mondo, anche vicino a noi, se ne fa un uso orribile ed omicida; l’uomo sembra non imparare né dalla storia, né da se stesso. Si affermerà che le fabbriche di armi garantiscono tanti occupati, in Italia, in Europa e nel mondo. Tutte cose che non si dicono, o si sono dette meno, per le plastiche. Sta di fatto che nessuna istituzione propone la messa al bando delle armi, nonché la riconversione della produzione militare in prodotti civili e di pace. E se è arduo pensare ad affrontare il problema del corretto uso delle plastiche a livello educativo allora forse dovremo rinunciare ad educare alla pace le popolazioni del mondo? E se questo è ancora più difficile, allora perché non aboliamo le armi? Magari è vero, purtroppo, che non sono usa e getta.
Concludendo questo lungo “pippone”, ribadisco che è giusto limitare l’uso della plastica monouso. Così come occorre sostenere l’economia circolare, le politiche di riutilizzo, la differenziazione e il riciclo dei rifiuti e, ancor prima, la loro riduzione. Ma, soprattutto, bisogna investire nell’educazione, nel sapere e nella formazione della coscienza civile e civica. Lo so che è difficile e sembra impossibile, ma non lo è del tutto e non lo sarà per sempre. E perché non possiamo plasticamente credere che sia questa la vera utopia e la vera rivoluzione del millennio? Buona domenica e buona fortuna.
Pontedera, 24 Febbraio 2019
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La frase riportata nella vignetta è di Jean-Luc Godard. E questo lungo “pippone” sulla plastica è dedicato a Clara, lei sa perché.
Libero Venturi