La cruda logica
di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi - venerdì 15 aprile 2016 ore 10:07
Il nemico può essere chiunque e ovunque. Può essere una donna dai grandi occhi neri, coperta dal velo e con un coltello nella borsa. Un ragazzo in moto che alla fermata del bus estrae una pistola. Uno studente con lo zainetto della scuola che fa esplodere una molotov. O un anziano che si lancia con la sua sgangherata vettura a tutta velocità contro un check point.
Non c’è età, non c’è sesso a determinare il profilo del nemico, tranne il fatto che sicuramente è un palestinese. Questo insegnano alle reclute dell’esercito israeliano al corso d’addestramento alle tecniche di antiterrorismo. Dure settimane in cui ufficiali e sottufficiali preparano i soldati ad operare in territorio ostile. “Capire il pericolo, rimuovere l’ostacolo” viene inculcato a tutti. Un insegnamento da tenere a mente, parole che hanno un significato ben specifico: questo è il modo per riportare la pelle a casa. In guerra anche se asimmetrica un esercito dovrebbe essere chiamato a rispettare dei codici morali scritti e siglati, a prescindere dagli ordini.
Possibile? Beh certamente non semplice. Proprio in queste ore l’esercito israeliano è di fronte ad una bufera di critiche dopo l’uccisione a Hebron di un palestinese che aveva, a sua volta, accoltellato e ferito un ufficiale. È stato un giovane militare dell’esercito di Tzahal a freddare il palestinese che si trovava a terra ferito e disarmato. Il caso ha suscitato polemiche dopo la pubblicazione online del video integrale del fatto. Il tribunale militare di Jaffa ha aperto un’indagine sull’accaduto, mentre l’ufficio stampa dell’esercito ha reso noto la testimonianza di uno dei commilitoni presenti, il quale ha riportato le parole dell’indiziato prima che aprisse il fuoco: “merita di morire, ha accoltellato un mio amico”.
Il ministro della Difesa Moshe Ya’alon e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu hanno parlato di gesto immorale condannandolo apertamente. Il capo di stato maggiore dell’esercito Gadi Eisenkot ripete di essere orgoglioso dei propri soldati ma che “non esiterà a punire coloro che andranno contro i principi morali dell’esercito”. Per portare alla luce quest’ultimo scandalo è servita una telecamera, per altri crimini c’è impunità e silenzio. “In pattuglia abbiamo usato civili per arrestare altri palestinesi – procedura oggi in gergo denominata «porta un amico» – abbiamo preso i vicini di casa usandoli come scudo per proteggerci.
Chiedere ad un soldato israeliano se usa i palestinesi come scudo umano è come chiedergli se per vivere respira”. Quando a Gerusalemme in uno scarno appartamento del quartiere meridionale di Talpiot incontrammo Yehuda Shaul, con la sua kippah nera in testa e la sua barba ben curata, per una lunga intervista, mai integralmente apparsa, in pochi conoscevano quel giovane paffutello, la sua storia e la sua organizzazione: Breaking the Silence. L’intenzione di Shaul e dei suoi amici era rompere il silenzio che copre le violenze, gli abusi, quello che Shaul definisce “l’immoralità dell’occupazione”: svelare pubblicandolo materiale raccolto dagli stessi soldati durante il loro servizio di leva nei Territori Palestinesi.
Quell’idea ha portato alla pubblicazione di un libro «La nostra cruda logica» edito in Italia da Donzelli, decine di testimonianze di veterani, racconti d’ordinaria quotidianità, un progetto che ha suscitato la reazione della destra israeliana, e le accuse di “tradimento” a Breaking the Silence. “Dappertutto t’insegnano ad accertare un’uccisione. La si accerta sempre, gli spari un’altra pallottola in testa anche se il tipo è morto”. Non hanno un volto e un nome le parole degli ex soldati, al lettore viene fornito solo l’anno e il reggimento di appartenenza.
Frammenti di ricordi indelebili, “cartoline” dal fronte: “Picchiavamo di continuo gli arabi, niente di speciale. Giusto per passare il tempo”. Poi scorri le pagine del libro e trovi la memoria di un soldato di fanteria a Betlemme: “l’espressione accusatoria nello sguardo di una donna di novant’anni, che certamente non ha fatto niente di male, è qualcosa che ti resta dentro”. Il giudizio nel racconto del paracadutista: “Sentire di essere superiore a loro è irrilevante, sei già superiore a loro”. Mentre il soldato dei corpi blindati ricorda: “Li mettevamo in ginocchio, li tenevamo a seccare”. Parla il poliziotto di frontiera: “piangevano, ovviamente, venivano umiliati”.
Dal canto loro le gerarchie dell’esercito hanno preso le difese dell’operato delle proprie unità. “Il nostro spirito è nella moralità, combattiamo con regole molto chiare, nel rispetto della dignità umana, con una netta separazione tra nemici e innocenti” sono le parole del tenente colonnello Nati Keren, trentenne comandante del battaglione Duchifat, è l’elite dell’esercito con la stella di Davide, l’arma migliore dello Stato di Israele, da sempre. Senza il proprio esercito Israele non esisterebbe.Breaking the Silence, che piaccia o meno, è un contributo alla vita democratica “verso se stesso ma anche verso l’altro”.
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Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi