I pacifisti sono liberi dal guardare i mondiali di calcio in Qatar?
di Adolfo Santoro - sabato 19 novembre 2022 ore 09:00
Che la religione sia ritenuta da alcuni l’oppio dei popoli è una cosa risaputa (ma quanti “atei” muoiono avversando ancora la religione, come se fosse una cosa importante, o chiedendo in segreto un’estrema unzione o una raccomandazione per un posto in Paradiso?). È anche abbastanza risaputo che tifare, guardare, organizzare o praticare lo “sport” in generale, ed il calcio in particolare, sono tutte forme di dipendenza, di alienazione, di “oppio”.
La similitudine tra sport e guerra è ovvia fin dai tempi degli Orazi e dei Curiazi, quando si aveva ancora il buon senso di risolvere i conflitti non attraverso le guerre, ma tra tre “eroi” contro altri tre “eroi”. Del resto, si sa, gli eroi è gente con la testa calda che, per evitare l’angoscia di morire, preferisce suicidarsi facendosi uccidere dalle circostanze. Non è immediatamente evidente che il suicidio mascherato sia così diffuso anche tra la gente “normale”. Sarebbe un sollievo per tutti gli altri esseri se quelli che tifano, guardano, organizzano, praticano la guerra o lo sport si suicidassero consapevolmente. Resterebbero pochissimi uomini sulla Terra: pochi, ma buoni, come si dice. Ma questa consapevolezza non è data e bisogna sopportare: gli uomini sono troppi e troppo stupidi! Sono troppo stupidi per comprendere la differenza tra “muoversi” e “sport”. Provo a spiegarlo, ma dubito che chi non ascolta possa comprendere: “muoversi” significa esprimere una qualità fondamentale della nostra animalità, all’interno della quale attiviamo la respirazione aerobica, che è il modo di ossigenare l’intero organismo. In tal senso, se proteggessimo e amassimo il nostro corpo, tutti dovremmo muoverci regolarmente; se non altro per esplorare quotidianamente il cambiamento della natura attorno a noi. Fare sport significa competere o stare al chiuso in una palestra o diventare professionisti. È un modo per essere complici della violenza collettiva chiudendosi in una caverna. È come tifare per una delle due parti in un conflitto oppure guardare in televisione i massacri o discutere su chi ha torto e chi ha ragione quando il problema è l’uso della violenza in sé. Acting out è detto in termini psicoterapici. E questo è vero ad ogni livello.
Prendiamo il mondiale di calcio in Qatar.
L’assegnazione al Qatar dell’organizzazione del mondiale di calcio di quest’anno fu decisa a tavolino dal duo Nicolas Sarkozy (condannato in due processi a più anni senza condizionale per corruzione e traffico di influenze e destabilizzatore internazionale, ad esempio attraverso il colpo di stato in Libia nel tentativo di fare affari col petrolio di quel paese) e Michel Platini (grasso ex-giocatore francese, avido nel mangiare così come nello svolgere il suo ruolo di presidente dell’associazione europea del calcio). Il loro incontro, nove giorni prima che avvenissero le votazioni per la scelta tra USA e Qatar come sede dei mondiali del 2022, fece sì che i voti della Francia andassero al Qatar risultando determinanti per l’assegnazione della sede. La contropartita sarebbe stata, secondo i giornali francesi, l’acquisto da parte della Qatar Sports Investment della squadra di calcio del Paris Saint-Germain, la creazione della piattaforma Bein Sports in Francia e la vendita di aerei da combattimento “Rafale” al Qatar.
Ma che cos’è il Qatar? È un emirato, confinante con l’Arabia Saudita, di quasi 300.000 arabi (ma nell’emirato lavorano in condizione di sfruttamento più di un milione e mezzo di immigrati dai paesi più poveri dell’Asia): in questo emirato il potere supremo è, lo dice il nome, dell’emiro, che non ha nessuna opposizione in partiti politici e che si serve di un organo di giustizia ispirata alla sharia, quell’interpretazione relativistica dei testi islamici che cambia a seconda del grado di fondamentalismo dell’autorità. Ne conseguono il fatto che un quarto del bilancio dello Stato è destinato a spese militari, l’ospitalità di una grossa base aerea statunitense, il finanziamento ai “Fratelli musulmani”, il fiancheggiamento del terrorismo fondamentalistico islamico. Pur essendo stato il primo paese del Golfo persico ad aver consentito alle donne di votare, il Qatar, come in altri Paesi musulmani, tiene sotto la donna sotto un “sistema di tutela maschile”: la donna deve sottostare alle regole degli abiti tradizione islamica, è limitata nel frequentare gli ambienti comuni e per studiare all’estero, sposarsi, lavorare in posizioni pubbliche o viaggiare deve avere l’approvazione di un uomo; questo sistema, di fatto, incoraggia la violenza e i soprusi maschili, anche verso chi è insicuro della propria identità sessuale. Secondo un’inchiesta del Guardian, inoltre, sarebbero almeno 6.500 i lavoratori morti nei lavori di preparazione a questi mondiali e, secondo Amnesty International, la percentuale di morti per arresto cardiaco o causa sconosciuta fra gli immigrati è molto più alta di quella degli arabi locali; il governo del Qatar ha cercato di occultare questa situazione “comprando” i servizi dell’Interpol, il sindacato dei lavoratori, parlamentari e influencer di altri paesi sono stati comprati. Anche a livello ambientale domina lo spreco: ci saranno condizionatori a cielo aperto in sette stadi, che manterranno la temperatura a 20°C, mentre all’esterno ce ne saranno almeno il doppio.
Il Qatar ha dunque comprato, né più né meno dell’Arabia Saudita con Matteo Renzi, il calcio, in cambio di armi e visibilità internazionale. Come la Russia quattro anni fa e, forse, l’Arabia Saudita nel 2030.
Nel frattempo il calcio è messo sotto accusa dal film “Tigers”, candidato all’Oscar e ispirato al libro di Martin Bengtsson, che, a 19 anni, da grande promessa per il calcio, fu acquistato dall’Inter. Bengtsson, che ora ha 35 anni ed ha avuto successo come scrittore e cantautore, fu tradito dall’Inter. Riferisce Bengtsson: “Ero molto bravo a calcio, a 16 anni giocavo già nel massimo campionato svedese e avevo un'autostima enorme. Avevo provato con Ajax e Chelsea, ma quando mi ha chiamato l'Inter ho accettato subito perché sognavo di giocare in Italia. Anche se da bambino mi vedevo sempre a San Siro, ma nel Milan. Mi sono detto che avevo sbagliato solo i colori della maglia... Avevo iniziato bene: segnavo e mi divertivo, ma dopo un po' sono iniziati i problemi. I dirigenti dell'Inter mi avevano promesso tante cose che poi non hanno mantenuto: un appartamento, invece dovevo vivere insieme agli altri ragazzi della Primavera… c’era machismo tra i compagni, più rapper che atleti, scherzi di caserma. E soprattutto le lezioni di italiano, la possibilità di andare a scuola. La lingua è tutto, mi sentivo tagliato fuori dal gruppo e stavo sempre peggio. Poi ho avuto un piccolo infortunio e non sono potuto scendere in campo per due settimane. Lì ho avuto una crisi esistenziale: la mia identità era basata sul calcio e se non giocavo, chi ero?... Alcuni ragazzi della mia squadra avevano fumato marijuana, così hanno iniziato a controllarci ancora di più: l'ambiente era pesante, duro. Sicuramente c'entrava anche la mia personalità: in quegli ambienti si aspettano ragazzi tutti uguali, ma non può essere così. Ero sempre più depresso… nel calcio ci sono dottori per tutto tranne che per la testa… e così ho tentato il suicidio. Quando mi sono svegliato in ospedale a Milano è stato bruttissimo. Sono tornato in Svezia e mi sono ripreso con l'aiuto di una psicologa e di altre persone. L'Inter mi ha cercato, ma non ho più voluto tornare… E così ho deciso di smettere con il calcio.”.
Un articolo del 2017, a firma, tra gli altri, di Vincent Gouttebarge, scrive “Lo stigma, la scarsa alfabetizzazione sulla salute mentale, le esperienze passate negative con la ricerca di cure per la salute mentale, i programmi impegnativi e l'ipermascolinità sono barriere per gli atleti d'élite che cercano un trattamento per la salute mentale.”. Ne consegue che i sintomi di depressione e le vie naturali per risolverli tendono ad essere sottovalutati per la predominanza dei benefici economici.
Il calcio rientra negli “sport di collisione”, cioè negli sport in cui il contatto atletico è potenzialmente traumatico, cui si aggiungono i ripetuti piccoli traumi cranici nei colpi di testa e nei contrasti aerei in area di rigore: è controverso se tutto ciò abbia grossolane conseguenze sulla depressione e sulla demenza degli “sportivi” (ma queste conseguenze sono evidenti in altri “sport”, come il pugilato).
La depressione nel calcio è tutt’altro che episodica (una lunga lista, tra cui Iniesta, De Sciglio, Mertesacker, André Gomes, Pogba), ma l’esempio da imitare è quello di Gianluigi Buffon, che si sentì talmente privo di energia da non riuscire neanche a guidare l’auto. Non si affidò ai medici, che gli consigliavano farmaci, ma si affidò a se stesso. E ne è uscito fuori meglio di prima. Si è dato il tempo per comprendere che i sogni infantili di diventare un campione erano finiti ed ora voleva solo “giocare” al calcio.
E, allora, lasciamo, a chi fa le guerre, le guerre e, a chi sogna di vincere il mondiale, il mondiale. Torniamo a camminare, finché dura, nella natura pacifica o a palleggiare nel cortile, anche se quasi tutti gli uomini sono sgraziatamente infantili e fanno le guerre e sognano di vincere il mondiale di qualcosa.
Adolfo Santoro