Pensieri
di Marco Celati - martedì 22 dicembre 2020 ore 07:30
La sera un odore di fumo si sparge nell’aria, come un ricordo di falò accesi nei campi o di braci di antiche trattorie. Altre volte un odore cattivo ci investe, ci prende il respiro, ci consegna un altro marchio olfattivo. Imbrunisce e si avvertono il fervore e la stanchezza del ritorno: nel giro delle auto, nelle luci delle finestre, nel brillio intermittente degli addobbi festivi. Rientrano, si siedono, apparecchiano per la cena: famiglie, persone sole, benestanti perfino ricchi, povera gente. Gente comune. Si coricano presto o aspettano che sia tardi per finire la giornata.
La notte, prima di chiudere le imposte, mi affaccio sul terrazzo di casa. Mi piace vedere il mondo immobile. Le cose ferme, fermo il tempo, solo gli alberi della piazza si muovono nel buio. Meglio se piove: la pioggia rischiara la mente. Se da lontano qualche cane latra mi ricorda una poesia. Non importano le stelle. La luna se c’è. Poi il freddo mi prende e rientro per dormire. Si potesse prendere sonno, tranquilli, e nei sogni sentirsi leggeri fino ad avere l’illusione del volo! Un proverbio gitano dice che i ricchi sognano i sogni e i poveri sognano il pane. Il pane e forse le rose.
Siamo esseri imperfetti e questo ci rende umani. Malinconici e questo ci dà sentimento. Umanità e sentimento ci differenziano nel mondo animale, soprattutto dagli stronzi. Il resto non è una gita di piacere: prendi tante di quelle botte che poi ti arrivano tutte insieme e ti spezzano la vita. E alla fine è così: misuri alla distanza quello che è e quello che è stato e se regge il confronto va bene, sei fortunato. Quello che puoi rimediare, rimedia o fatti una ragione, serbando pudore di te. Ciò che sarà dipende da quanto c’è ancora, da quello che avanza o che resta. Il tempo non fa sconti a nessuno. Ma per fortuna, dice, il tempo non esiste.
A Pontedera è tutto un parlare del cambio del nome della piazza: da “Curtatone e Montanara” ad “Alessandro Mazzinghi”. Inutile che vi dica: Curtatone e Montanara la battaglia risorgimentale, cui parteciparono giovani studenti universitari pisani e pontederesi, partiti volontari. O si fa l’Italia o si muore. E ci morirono davvero, poveri ragazzi. La guerra fa schifo sempre, ma l’Italia la fecero per noi. Tagliarono la punta del cappello universitario, per la memoria di quegli anni spezzati o, dicono anche, perché dava fastidio a prendere la mira con il moschetto. Ridicolo cappellino, fascista goliardia, ma non quella, non quel cappello che meritano rispetto. Per sempre. E poi il campione di casa, il riscatto del pugilato, due volte sul tetto del mondo. La rivalità costituzionale con Benvenuti, come quella di Bartali e Coppi.
Nessuno, offuscato dal mito, che dica che Benvenuti non era solo di destra -quella era una sua scelta- non era solo uno “schermitore”, era più alto, con un allungo maggiore e di peso superiore rispetto al Mazzinghi, “picchiatore”. E questo non sminuisce affatto l’immagine del nostro campione, se possibile ne esalta l’impresa. Non dovrei parlare di queste cose, entrare in queste polemiche, non ne capisco. Lascio parlare il mio amico Libero Venturi con i suoi pipponi: bisognava trovare una soluzione diversa per Mazzinghi, il nome a quella piazza non andava cambiato, il Comune ha sbagliato.
Il professore di storia di forti tradizioni liberali ha lanciato un appello accorato in difesa della “tradizione di Curtatone” che “rappresenta, insieme alla tradizione della Resistenza, forse un isolato momento di unità nazionale popolare all'interno della nostra storia sacra”, richiamando anche la “luminosa tradizione dell'Ateneo pisano”. Magari sorvoliamo sull’espressione “inseguire populistici e corrivi vellicamenti di favor popolare” che sarebbero alla base della decisione del Comune. Non sono né un liberale, né uno storico. E detesto la retorica. Però ha ragione il professore. Ho un amico, a suo tempo giovane liberale progressista e calabro piemontese, da cui ho imparato molte cose. Ma lui è un ingegnere: nessuno è perfetto. A volte ancora ci sentiamo.
Gli intellettuali insorgono. I Democratici, il maggior partito cittadino, sotto accusa: inadeguati, non c’è stata un’appropriata consultazione. In effetti. Anche se il coro di chi sta sull’albero a cantare non mi è mai piaciuto. E tuttavia anch’io non ho fatto tanto di meglio. Evocato il compianto Dino Carlesi, l’hanno fatto rigirare nella tomba, distraendolo dalle sue laiche dispute con gli angeli. Il vecchio socialista! Ci manca Dino, la sua poesia. Andrebbe davvero richiamata in vita.
Va bene, va bene: basta che non si dica che è sbagliato intestare una piazza a chi ha preso “a cazzotti altri esseri umani” e come si farà a spiegarlo ai giovani e che messaggio diamo loro. La scrittura alle volte andrebbe sorvegliata. Qualche vecchio e simpatico ubriacone dei nostri tempi tirava cazzotti alle persone dopo aver alzato il gomito. Oggi lo fanno i giovinastri romani per la festa del lockdown. Il pugilato è uno sport, una disciplina olimpica, fin dall’antica Grecia, a proposito di storia, è divenuto nobile arte. Il pugilato mi piace più degli intellettuali. E Sandro Mazzinghi è stato un grande campione. Che non ricordo come attaccabrighe, ma come persona gentile. Ha scritto e dettato anche libri sulla sua vita. Come si farà a spiegarlo ai giovani? Semplice: quanti giovani al mondo praticano il pugilato e quanti ancora come riscatto? Come avviene per altri sport popolari. Oggi anche le donne.
Il fatto è che bisognerebbe cambiare decisione quando si sbaglia e scusarsi quando si dicono sciocchezze. Ma temo non si farà, né gli uni né gli altri, perché siamo fatti così: perseveriamo. Comunque hanno ragione: penso anch’io, per quel che può valere, che il nome della piazza non andava cambiato. Né si doveva mettere in imbarazzo la famiglia di Sandro. Andava trovata una soluzione diversa: aggiungere una memoria e non sostituirla. Ora come uscirne? Un compromesso toponomastico? In fondo sarebbe sempre un “compromesso storico”. Chissà.
Scrive l’epicureo Orazio nelle Satire «est modus in rebus; sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum». C’è una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto. In genere viene più citata la prima parte: «est modus in rebus», esiste una misura nelle cose, come invito alla moderazione, alla prudenza. E invece quei versi non inducono affatto alla moderazione, semmai all’indignazione.
Corrado Augias nella lettera con cui comunica all’Ambasciatore di Francia che intende restituire la Legion d’onore conferitagli, usa infatti la seconda parte: «sunt certi denique fines...». Protesta per il fatto che lo stesso riconoscimento sia stato dato in questi giorni da Macron al generale Al-Sisi, il Presidente egiziano che ha, quantomeno, la responsabilità morale dell’uccisione di Giulio Regeni ad opera dei servizi segreti del suo paese. Ritiene Augias che il confine di là da cui cessa di essere ogni giustizia sia stato valicato e oppone il suo rifiuto.
Quante volte si è superato il limite oltre il quale non può consistere il giusto? Noi, questo paese, questo mondo, nella vita, quante volte? Non lo so, forse perché il «modus», la misura, il modo, è nelle cose, nel «rebus» che sono le cose. E noi non conosciamo il modo e non decifriamo le cose. Poi arriva uno come Augias e prova a spiegartelo.
Auguri
Marco Celati